Tra Hollywood, slow cinema e autorialità
Partiamo dal grande escluso: tra i film premiati alla 76. Mostra del cinema di Venezia spicca l’assenza di Marriage Story. Il film della maturità di Baumbach, nella sua sapiente alternanza di momenti comici e drammatici, interpretato dall’affiatata coppia Johansson-Driver, probabilmente si rifarà agli Oscar, ma avrebbe meritato almeno un premio. Resta ingiustamente a bocca asciutta anche l’altro grande film targato Netflix, The Laundromat, tra i risultati più brillanti e divertenti della filmografia di Soderbergh.
Chi scrive è anche tra i pochi (ma buoni e giusti, come ha scritto Giulio Sangiorgio su FilmTv) ad aver apprezzato molto Ad Astra: nel cinema di emozioni d’altri tempi, sotterranee, ma intense, pronte ad esplodere, con cui ci delizia James Gray, sin dagli inizi della carriera, l’approccio intellettualistico dello spettatore più “quadrato” (come sono molti critici e cinefili) non può trovare soddisfazione. A costoro lasciamo volentieri, per trastullarsi, il metacinema sterile del film “francese” di Hirokazu Kore-eda, La verité, sostanzialmente indistinguibile dalle innumerevoli commediole transalpine che da qualche anno invadono i nostri schermi. E se Assayas con Wasp Network realizza un film interessante ma minore, Polanski ritorna alla grande con J’accuse, ennesima lezione di regia di uno dei massimi filmmaker viventi.
L’Italia, questa volta, ha schierato in concorso tre dei suoi cineasti più originali: Pietro Marcello con Martin Eden, Mario Martone con Il sindaco del rione Sanità e l’inimitabile Franco Maresco con il disperato ed esilarante La mafia non è più quella di una volta. Una coproduzione italiana è anche Waiting for the Barbarians, il film di Ciro Guerra inevitabilmente più tradizionale dei suoi precedenti, mentre Ema è il lungometraggio più bizzarro e inaspettato di Pablo Larraín, un concentrato di sensualità. Il breve monologo sul reggaeton del personaggio di Gael García Bernal non si dimentica.
Così come rimarrà nella memoria di chi vi ha partecipato l’incontro con Tsai Ming-liang, in occasione della proiezione dell’ipnotico Goodbye, Dragon Inn (2003): cinema, memoria, infanzia si fondono mirabilmente nelle parole e nelle immagini del regista taiwanese.
A proposito di “slow cinema”, nella sezione Orizzonti, l’italiano Sole di Carlo Sironi non riesce a uguagliare la potenza stilistica di film come il post-apocalittico Atlantis di Valentyn Vasyanovych, il visionario The Criminal Man di Dmitry Mamuliya, o il misuratissimo Blanco en blanco di Théo Court, con il sempre convincente Alfredo Castro.
L’attore cileno è anche protagonista di uno dei film migliori della Settimana della critica, l’appassionato El principe di Sebastián Muñoz, cruda ricognizione dell’universo carcerario, che condivide con il libanese All This Victory una perfetta esplorazione delle dinamiche relazionali in uno spazio chiuso dominato dalla violenza. Infine, dal programma delle Giornate degli autori citiamo almeno l’esordio di Igort, 5 è il numero perfetto, che dimostra come in Italia sia ancora possibile girare film di genere senza trascurare la cura formale.