Brothers in arms
Oregon, 1851. Campo lunghissimo, poi campo lungo. È notte. Alla luce delle candele, due uomini fanno irruzione, a colpi di arma da fuoco, in una casa isolata. Hanno come obiettivo un tale Blount. Lo fanno fuori, insieme ad altre sei o sette persone. Sono i famigerati fratelli Sisters, Charlie ed Eli, dal temperamento opposto. Lasciano dietro di loro una scia di fiamme e sangue, i due elementi che colorano di calore i fotogrammi freddi e autunnali del film.
Il destino dei due s’intreccia con quello di un’altra coppia bizzarra, quella composta dal detective Morris e dal chimico/prospettore Warm (nomen omen), che ha scoperto una soluzione da versare nelle acque fluviali per distinguere l’oro dall’H2O. Warm vuole costruire un falansterio a Dallas, una comunità ideale dove vivere in pace, nel rispetto reciproco, ripudiando profitto e aggressività.
Una storia western con tutti i crismi, apparentemente, ma Audiard non è mai stato un regista canonico, e ormai non è più tempo (neppure) di antieroi. Il regista innesta il nucleo puro del suo cinema virile nella wilderness del West, omaggiandone i miti solo a livello iconografico. Sceglie due attori straordinari come Phoenix e Reilly, per sfruttarne al massimo l’alchimia, tanto nei frequenti battibecchi quanto nelle scene più spassose, caratterizzate da un umorismo di dialoghi e situazioni. Il rapporto tra i due è il fulcro del film, una di quelle intense relazioni tra individuo debole e individuo forte, pronte a un repentino rovesciamento di ruoli.
Un cinema dell’identità e dello scontro, in cui l’arco narrativo dei protagonisti è all’insegna di un dinamismo che è tutt’uno con la presenza addosso ai corpi della mdp, in un’adesione alle sorti dei personaggi ben lontana dalla glacialità di tanto cinema “da festival” contemporaneo.
Darwinismo sociale e giochi di potere sono le ossessioni di Audiard. Il suo pessimismo nella descrizione delle influenze nefaste dell’ambiente sul comportamento degli esseri umani, la violenza che esplode spettacolare nei suoi film, sempre ottimamente girati e fotografati, i finali in cui molti crimini restano impuniti e la lotta per la sopravvivenza decreta il suo vincitore gli hanno fatto guadagnare, per esempio dai Cahiers, l’accusa di essere autore di un cinema di dubbia moralità, destrorso, esteticamente reazionario, sadico verso personaggi e spettatori.
Ci sembrano giudizi poco fondati. Vero, Audiard ama gli shock visivi (qui un ragno entra in bocca al povero Eli, l’alcolizzato Charlie vomita in primo piano, tornano i corpi martoriati da ferite e handicap fisici, in un incubo intravediamo una strage familiare), ma di fronte alla carineria di tanto cinema odierno i suoi film sono tra i pochi che s’interrogano, senza autocensure e con grande capacità d’introspezione, sull’idea di mascolinità, anche nei suoi aspetti più sgradevoli. Il finale di The Sisters Brothers, forse, è il più dolce che Audiard abbia mai girato.
The Sisters Brothers [id., USA/Francia 2018] REGIA Jacques Audiard.
CAST John C. Reilly, Joaquin Phoenix, Jake Gyllenhaal, Riz Ahmed, Rutger Hauer.
SCENEGGIATURA Jacques Audiard, Thomas Bidegain (dal romanzo Arrivano i Sister di Patrick deWitt). FOTOGRAFIA Benoît Debie. MUSICHE Alexandre Desplat.
Western, durata 121 minuti.