Padri e figli
La notte della Repubblica. Così nel 1989 Sergio Zavoli decise di chiamare la storica trasmissione d’inchiesta dedicata agli anni di piombo. La parola “notte” trasmette non solo idea di pericolo, minaccia e chiusura, può trasmettere anche le sensazioni di indefinito, smarrimento, disagio e impossibilità di vedere e comprendere davvero a fondo.
Quello, cioè, che in un certo senso capitò al cinema italiano (con eccezioni quali Processo per direttissima di Lucio De Caro, versione “fiction” del caso Pinelli sullo sfondo della strage dell’Italicus, e Italia: ultimo atto? di Massimo Pirri) al momento di raccontare, interpretare e indagare le varie sfumature che hanno colorato il decennio di piombo. Non è un caso che sia stata particolarmente affrontata la galassia delle trame nascoste e della strategia della tensione, di per sé inevitabilmente nebulosa e inafferrabile, o che il terrorismo politico – sul grande schermo quasi esclusivamente rosso – sia stato perlopiù letto con i filtri del privato e dell’intimismo del rapporto tra padri e figli. Aldo Moro, d’altronde, sarebbe poi apparso proprio come un padre della nazione, prima sbeffeggiato e disprezzato – la feroce caricatura dipinta sul volto di Volontè in Todo Modo – e poi rimpianto, simbolo di rimossi, riletture, rielaborazioni e sensi di colpa esplose nell’illusione con cui si chiude Buongiorno, notte.
L’affaire Moro – letto già nel 1978 come un evento decisivo, letterario e simbolico ben oltre la contingenza più immediata dal superbo omonimo romanzo travestito da saggio di Leonardo Sciascia – è del resto il punto di non ritorno, in un certo senso (e apparentemente) il primo evento davvero chiaro, nelle cause e nelle conseguenze, di quella stagione. Ne divenne il simbolo principale, a livello ideale, culturale, politico e pure, con l’immagine del cadavere dello statista nel bagagliaio della Renault rossa, iconico. Aldo Moro divenne oggetto di una “mitizzazione”, di una canonizzazione che lo pose alla stregua di un santo martire e in qualche modo di un corpo alieno, e sofferente, al potere di cui era in realtà figura decisiva. È curioso notare come già in Todo Modo il simulacro grottesco di Moro in più di un’occasione è come se prevedesse il suo destino e come, pur nella cattiveria e nel sarcasmo, risultasse in qualche modo estraneo al contesto banalmente mediocre dei suoi simili. Estraneità, in tempi più recenti, espressa ne Il Divo di Sorrentino, dove sarà il fantasma della coscienza di Giulio Andreotti, e in Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, dove, introdotto da un movimento di macchina che significativamente parte da un presepe, affermerà che per l’Italia è indispensabile un cataclisma e che lui è pronto a sacrificarsi e esserne la prima vittima.
La morte di Moro fu, semplificando, un punto di svolta anche perché isolò le Brigate Rosse e, nell’universo della contestazione e della lotta, allargò la forbice tra chi aveva appoggiato l’acuirsi della lotta armata e chi no: in qualche modo, fu l’evento simbolico che aprì le porte alla sconfitta e alla consapevolezza di questa. E il cinema ne prese atto, anche se rifugiandosi nel privato.
La celebre frase «Ne ammazza più la depressione che la repressione!» detta nel 1980 in Maledetti vi amerò di Marco Tullio Giordana, uno dei pochi film a scandagliare dall’interno ed esplicitamente lo sconforto, lo smarrimento, l’ammainare le armi e la consapevolezza che qualcosa era o fallito o degenerato, segue proprio l’elenco di lettere disperate e ricche di sensi di colpa arrivate alla redazione del giornale Lotta continua il 9 maggio 1978.
Significativo è anche paragonare il Dino Risi di Mordi e fuggi (1973) al Risi di Caro papà (1979). La prima è una commedia palesemente ispirata alle Brigate Rosse, che allora non avevano ancora davvero alzato l’asticella dello scontro, e dove è evidente quanto la simpatia del regista vada ai rapitori e al loro ideologo e non al viscido industriale rapito, simbolo di una società malata e cialtrona. Anche il ricchissimo industriale protagonista di Caro papà non è visto con simpatia, ma in questo caso il punto di vista è principalmente il suo e prevalgono il ritratto intimo, le incomprensioni e i dubbi interiori. Da ciò emerge una distanza generazionale, uno scontro tra padre e figlio probabile terrorista. È un approccio che guarda il problema da lontano, quasi di riflesso, sintomatico dello smarrimento e della difficoltà di raccontare, interpretare e indagare direttamente che, nel complesso, il cinema italiano ebbe nei confronti dell’acuirsi degli anni di piombo.
Inizia quindi una serie di film in cui il terrorismo viene filtrato da racconti privati, incentrati sui rapporti padre/figlio o comunque familiari (Tre fratelli, 1983, di Francesco Rosi). Emerge, in questi scontri generazionali, anche la questione della resistenza tradita, uno dei principali cavalli di battaglia della contestazione e della lotta, fin dalle BR delle origini. I padri in questi casi sono “partigiani imbruttiti”, diremmo oggi, che si crogiolano del passato senza rendersi conto del presente mediocre di cui sono fautori e protagonisti. Ne La tragedia di un uomo ridicolo (1981), Bernardo Bertolucci tratteggia un mirabile ritratto di questo “tipo”, ancora una volta raccontando il punto di vista del padre, ricco industriale il cui figli o viene rapito da un gruppo di terroristi. È un film dal tono rarefatto e metafisico, quasi onirico, che dipinge una realtà fugace e insondabile e racconta una sorta di flusso di coscienza del protagonista causato dall’incontro con la lotta armata. Confermando anche il disagio e lo smarrimento di buona parte del nostro cinema nei confronti degli anni di piombo, che l’assenza dei figli e dei terroristi, perlopiù in queste opere comparse, figure secondarie se non semplici richiami, ribadisce.
Disagio che, non a caso, quindi si acuì dopo l’affaire Moro e dopo, possiamo pensare, il conseguente dubbio che le sacrosante istanze di contestazione e rivoluzione di pochi anni prima si fossero perse nella spirale di violenza ed errori, trasformandosi da lotta a terrorismo: il percorso di Bernardo Bertolucci dalla rabbia di Prima della rivoluzione alla disillusione di La tragedia di un uomo ridicolo può essere, del resto, esemplare.