Tra ipotesi sulla morte e cadaveri eccellenti
Anarchici distratti cadono dalle finestre, giudici troppo impegnati muoiono sotto il fuoco rosso o nero, giovani studenti contro la polizia, treni esplodono e la vita prende le sembianze della morte. Nessuno è al sicuro. Sono questi gli anni della contestazione generale, della lotta di classe, del terrorismo e dei colpi di stato, sono gli anni di piombo, così definiti poi nel 1981, da Margarethe von Trotta, dando il titolo all’omonimo film – per raccontare la situazione analoga vissuta nella Germania Ovest –, anni in cui la strategia è quella della tensione, in cui le proprie idee vengono usate come bombe ad orologeria contro il sistema per dimostrare che le cose devono cambiare.
Un bollettino di guerra che va dalla fine degli anni Sessanta (è del 12 dicembre 1969 la strage di piazza Fontana) fino agli inizi degli anni Ottanta; il cinema non può rimanere silente, deve raccontare uno dei decenni più complessi e tragici della nostra storia repubblicana, affondare a piene mani nel dolore di piazza Fontana, di piazza della Loggia (28 maggio 1974), nella strage di Bologna (2 agosto 1980).
Gli anni Settanta sono stati gli anni del cinema impegnato, quello di Petri e di Bertolucci, quello politico, militante, proletario, intento a cambiare le cose, a cancellare le bugie per raccontare la verità. L’espressione massima di questo è sicuramente Documenti su Giuseppe Pinelli (1970), film documentario, composto da Giuseppe Pinelli, diretto da Nelo Risi, e da Ipotesi su Giuseppe Pinelli, conosciuto anche come Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, diretto da Elio Petri. L’opera, esempio di un cinema grimaldello che tenta di eliminare le menzogne dello Stato, racconta denunciando, usando l’arma del paradosso e della più amara e tragica ironia, la storia di Pinelli, accusato senza prove, di avere partecipato alla strage di piazza Fontana, solo perché noto alla Questura di Milano per la sua fede anarchica. È un cinema urgente e minimale, con camera fissa, che usa la parola come una spada, che mostra le contraddizioni della società e, mentre lo fa, combatte e provoca. È cinema d’impegno politico-sociale in un periodo di lotte anche il documentario Matti da slegare (Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, 1975) – girato all’interno dell’ospedale psichiatrico di Colorno –, un titolo che colpisce come lo stile proprio di un cinema ribelle, che sostiene Franco Basaglia prima dell’approvazione della legge 180 nel 1978. È fatto di primi e primissimi piani sui volti dei pazienti per entrare dentro a loro e alle loro storie anche attraverso una macchina da presa instabile, testimone viva di una narrazione importante e necessaria.
Omicidi di giudici e l’ombra costante di un imminente colpo di stato sono le basi da cui molti cineasti partono per raccontare gli anni della contestazione e del terrore a tutti i costi. Nel 1976 Francesco Rosi prende ispirazione dal breve romanzo del 1971 di Leonardo Sciascia Il contesto per realizzare Cadaveri eccellenti in cui pur non narrando direttamente gli anni di piombo se ne respira l’odore. Al centro c’è l’ispettore Rogas (Lino Ventura) che investiga su una serie di morti di magistrati e quello che sembra un semplice romanzo giallo si fa di morte in morte, di omicidio in omicidio istantanea dei nostri giorni. Come Sciascia ha messo in luce meccanismi malati del potere politico siciliano, così fa Rosi, aedo di film d’inchiesta, narratore della nostra storia, compositore di critiche feroci. Rogas si trova di fronte a una schiera di militari, poliziotti, giudici, cadaveri eccellenti, cammina circospetto per strade vuote, misteriose, da cui emana un metafisico surrealismo.
La sensazione che qualcosa di spaventoso stia per accadere si sente in Io ho paura, film del 1977 di Damiano Damiani; la pellicola racconta la collusione fra trafficanti di armi e personaggi dei servizi segreti. Ad interpretare il brigadiere Ludovico Graziano è Gian Maria Volonté, di solito personaggio eroico, figlio della lotta di classe – protagonista di molti film di Elio Petri, tra cui La classe operaia va in paradiso e Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli –, dove è un antieroe che si esemplifica nell’ammissione, dopo l’ennesimo attentato che è costato la vita ad un collega, di aver paura. Gli viene affidato un altro compito, accompagnare il giudice Cancedda che sta lavorando ad un caso complesso. Anche qui le morti sono tante, più o meno eccellenti, ciò che emerge è il cono d’ombra in cui il brigadiere si trova, il senso di ansia perenne causato anche dal fatto che la morte sembra farsi sempre più vicina a lui. Volontè riesce a toccare corde profonde, dense di umanità perché l’uomo vive di esitazioni, dubbi; e tutto è amplificato dalla capacità di Damiani di rendere il conflitto tra Stato e criminalità una sorta di western senza esclusione di colpi. Anche in questo caso il cinema diventa rappresentazione di impegno civile e politico e il regista racconta un mondo lacerato, malato.
Viene spesso quindi rappresentato lo scontro tra individuo e autorità. In Caro papà, film di Dino Risi del 1979 (anno caldo per il dibattito politico dopo l’assassinio di Aldo Moro) che trasforma le risate in riflessioni angosciate sull’Italia degli anni ’70, il confronto è il più classico, quello tra padre (qui Vittorio Gassman) e figlio. Risi non si snatura con questo film, il suo è il punto di vista della generazione dei padri rispetto ai figli; parla di terrorismo e lo fa concentrandosi su un padre, uomo d’alta finanza e maneggione, che scopre nel figlio un terrorista di sinistra.
Questo è un cinema intenso, pieno di storia o di riflessi di essa e di noi, “spaccati” tra partiti e fazioni, ed è fondamentale per capire meglio un periodo tra i più oscuri dell’Italia, vissuto da uomini che hanno percepito la paura, sentito l’odore della polvere da sparo, visto il pugno alzato e la mano protesa nel saluto romano, e che l’hanno saputo raccontare.