Splendori nell’erba
I film non sono la vita, ma devono il potere che hanno su di noi al fatto che in qualche modo sono come la vita, al pari di ogni genere di finzione, letteraria o cinematografica che sia. La riflettono, ricreano, anche rinvigorendola, a volte. La vita nelle mani di un narratore, di un regista: un rifrangersi continuo di sentimenti, tempi, dolori e gioie. Tanto più se è la vita dello stesso autore ad essere rappresentata, o meglio, trasfigurata, traslata in un’altra dimensione, favolistica, racconto di sé che è poi racconto di (e per) tutti.
Ecco quindi la mise en abyme, caleidoscopica matrioska in cui Pedro Almodóvar squaderna tutto il suo universo, Dolor y gloria, dolori e glorie, di carni e anime dissipate nel tempo, materia viva e pulsante, la sua e quella dei suoi fantasmi. In questo senso l’esordio è programmatico, con la chirurgica disamina delle malattie e nevrosi che hanno da sempre accompagnato il protagonista, Sebastian Mallo, insieme a una geografia sentimentale e anatomica che si compenetrano. Che abbia tutte le caratteristiche di un lascito non è dato saperlo né importa. Dolor y gloria è piuttosto la raggiunta completezza e maturità artistica di un regista e del “suo” attore – gli afflati sospesi in cui Antonio Banderas soffoca ogni gesto, pianto, gemito, ironia sono memorabili e gli sono infatti valsi una Palma d’oro – che insieme ci dicono di un trapasso a un’altra età, quando il cinema, l’arte, la poesia, e per metonimia la vita stessa, non li si può più amare come prima, perduto l’inganno, il desiderio, lo “splendore nell’erba” tuttavia ancora evocato. E l’immagine cinematografica è pertanto un frammento che riceve luce da ancora altre immagini, memorie recuperate a tratti, “fiammate” come per il protagonista di un famoso romanzo di Umberto Eco, e il ritratto di Sebastian Mallo da bambino ritrovato per caso in una sala d’attesa, su cui trema appunto un’ininterrotta riflessione sul tempo, sul visibile, sulle sue ferite e dolori trascorsi, su un’auspicata armonia.
Dolor y gloria è girandola offuscante e vertiginosa di volti e figure tangibili e non del cinema di Almodóvar. La carica dirompente dell’elemento femminile è ad esempio sintetizzata nella figura della madre, l’ossessione amorosa nel ritorno, in entità quasi di sogno, fantomatica, a teatro, in lacrime, del protagonista del monologo autobiografico che alla fine Sebastian Mallo cede a un attore che aveva in passato consacrato. Almodóvar ha costruito una storia facendo in modo che il suo orologio battesse in un mondo o più mondi (gli intermezzi del suo passato da sognati a reali) che non hanno orologi, all’insegna del tempo della finzione, elastica, per cui è stato possibile ritornare su di sé e sulla propria memoria, far coincidere tutto. Affermazione di libertà con la magia della creazione, del cinema. Il cinema ha così funzione balsamica, così come lo sono le lacrime, quelle di Marco, protagonista di Parla con lei, l’uomo che non trattiene le lacrime mentre Caetano Veloso canta Cuccurucucu Paloma, o del personaggio di Leonardo Sbaraglia mentre assiste all’evocazione del suo passato, e infine quelle di Sebastian, e di Almodóvar stesso, ci piace pensare, magari alla fine dell’anteprima a Cannes.
Dolor y gloria [id., Spagna 2019] REGIA Pedro Almodóvar.
CAST Antonio Banderas, Penélope Cruz, Asìer Etxeandía, Leonardo Sbaraglia, César Vicente, Cecilia Roth, Raúl Arévalo, Pedro Casablanc.
SCENEGGIATURA Pedro Almodóvar. FOTOGRAFIA José Luis Alcaine. MUSICHE Alberto Iglesias.
Melodramma, durata 113 minuti.