Il cinema oltre la sala
Cos’hanno in comune un artista, un amministratore di hedge fund, una giornalista, un banditore d’asta e una colf filippina? La risposta è semplice, si tratta del capitale. Tutte queste figure sono immerse in relazioni di potere e sfruttamento generate dalla sua ontologia fluida e sfuggente; logiche subdole quanto strutturali, tanto imprescindibili quanto impossibili da rappresentare. Questo per lo meno fino al 2014, quando Playtime, un’opera dell’artista e filmmaker inglese Isaac Julien, ha convogliato i linguaggi dell’arte e del cinema a questo scopo. L’opera è stata esposta fino a un paio di settimane fa a Milano, nelle sale di Palazzo Dugnani, all’interno di una mostra collettiva chiamata Ipervisualità, dedicata alla capacità delle immagini in movimento di espandere i confini del reale per aprire scorci su nuove possibilità visive.
Playtime è il progetto di una personalità artistica già pienamente definita: figlio di immigrati africani, pittore mancato ed ex allievo della Central St Martins di Londra, Julien si è formato negli anni Ottanta, quando la contaminazione tra arte contemporanea, audiovisivo e televisione si proponeva come un passaggio obbligato per mettere in discussione le pratiche artistiche tradizionali. In meno di un decennio Julien si è costruito un nome decostruendo l’identità black e queer con film (uno su tutti Looking for Langstone) che toccavano questioni globali come le migrazioni a spinta lavorativa e sociale. Da qui all’indagine delle logiche capitalistiche che ne sono alla base il passo è veramente breve. Nel 2012, in un dibattito con lo studioso marxista David Harvey presso la Hayward Gallery di Londra, i due affrontano pubblicamente la questione della rappresentabilità del sistema finanziario, che Harvey svolge paragonando il capitale alla forza di gravità: nessuno la vede ma tutti riescono a percepirla attraverso i suoi effetti. Il talk viene registrato e trasformato in un video chiamato Kapital, non senza strizzare l’occhio a Eisenstein e il suo progetto mai realizzato di trasportare il Capitale di Marx sul grande schermo. Queste sono le basi del lavoro successivo di Julien, che con Playtime tenta un’impresa simile dandogli però il titolo del film omonimo di Tati, da cui prende in prestito anche l’idea di una critica ai moderni stili di vita filtrata attraverso il paesaggio urbano. Un’opera, quella di Julien, che rifiuta le tradizionali sequenze di dati impazziti sullo schermo o gli attacchi di panico negli uffici di Wall Street per un affresco che mescola fiction e documentario e si fonda su un assunto fondamentale: il capitale non è un oggetto, ma un sistema di relazioni sociali mediate da oggetti; di conseguenza l’unico modo per visualizzarlo è tradurlo in relazioni spaziali.
Nelle sue prime presentazioni al pubblico in forma di gallery film, Playtime è distribuito su sette grandi schermi con immagini proiettate da entrambi i lati, sospesi al soffitto in una disposizione che invita il pubblico a ricostruire l’opera in autonomia, muovendosi nello spazio. L’idea è che in qualsiasi modo decida di spostarsi il visitatore non riesca mai a trovare un centro, un’immagine da cui partire per organizzare tutte le altre, né tanto meno a vedere l’intero film, sperimentando un’efficace allegoria del sistema finanziario globale. Nella sua metamorfosi da prodotto audiovisivo a installazione multi-schermo Playtime si affianca al noto Better Life (Ten Thousand Ways) nell’ampliare le possibilità espressive del montaggio oltre i confini della sala cinematografica. L’opera dice molto sul modo di lavorare di Julien, che considera il cinema un’arte onnicomprensiva capace di inglobare musica, teatro, danza, pittura, fotografia in un’esperienza al contempo poetica e politica. La disseminazione della pellicola nello spazio non preclude all’artista di lavorare anche sulla percezione del tempo: Playtime si avvale di tempi lunghissimi, sospesi e meditativi, e di una fotografia che sfrutta tutte le possibilità delle ultime tecnologie per ottenere la resa estremamente pulita e patinata che è il marchio di fabbrica di tutta la sua produzione.
La telecamera passa in rassegna architetture e paesaggi che portano impressa l’impronta del capitale: gli immensi uffici panoramici della City, i grattacieli sempre accesi nella notte di Dubai, le superfici bianchissime delle gallerie londinesi che rispecchiano inserti quasi onirici delle distese ghiacciate nei dintorni di Reykjavik. All’interno di queste tre città profondamente ridisegnate dalla ragione economica, attori professionisti che impersonano archetipi si mescolano a personaggi reali che interpretano sé stessi. Così James Franco si sbraccia in una lunga apologia del mercato dell’arte, mentre Simon de Pury, banditore d’asta di fama mondiale, sancisce la fortuna di pochi e la rovina di altri a colpi di martello. L’attrice Mercedes Cabral piange sulle vetrate igienizzate di un appartamento deserto quando il pensiero corre al figlio lasciato in patria, mentre Ingvar Eggert Sigurdsson si aggira per le stanze in costruzione del suo agognato appartamento post-modernista, ormai popolato solo di spettri. Ciascuno di loro racconta una storia che non c’è stato bisogno di inventare: sono le vite di alcuni amici dell’artista, schiantate dal crollo dei mercati; apparentemente alienate e in sé concluse, ma tutte ugualmente influenzate dalle stesse dinamiche. Cinque monologhi che si sovrappongono in una narrativa non lineare ma dal messaggio forte e chiaro: il capitale è una vertigine letale che lega tutto, arte compresa. Il capitale è la condizione di esistenza anche dello stesso lavoro di Julien, intrappolato nell’ironia di produrre opere di critica finanziaria solo grazie a budget stratosferici. Il capitale fagocita tutto, anche la critica di sé stesso.