Gli Studios negli anni Cinquanta: un irresistibile vento di cambiamento
Tra i passatempi preferiti dei critici cinematografici c’è senza dubbio quello di psicanalizzare le epoche tramite i film, analizzando le paure e le fissazioni che si manifestano e sempre si sfogano sul grande schermo. I film sono fatti dei nostri sogni; lo sono in modo inconsapevole, ad esempio nel cinema popolare che cercando il successo commerciale finisce per essere lo specchio più limpido del suo pubblico, o in modo deliberato, quando le idee collettive sono filtrate dall’occhio consapevole dell’autore. Qualunque sia il caso, concordano tutti nel dire che il cinema ha raccolto e conservato le ossessioni del Novecento come una trappola a caduta che cattura gli insetti. I momenti più interessanti da questo punto di vista, quelli che sempre sono citati perché in essi le paure diffuse hanno assunto forme definite sulla celluloide, sono due: il cinema di Weimar, che anticipò il nazismo in modo eclatante, e quello americano degli anni Cinquanta; in questo articolo parleremo per sommi capi del secondo.
Furono così tanti i motivi d’inquietudine a lasciare il segno nella cinematografia post bellica degli Stati Uniti che ci vorrebbe un intero saggio solo per citarli tutti: la bomba atomica affascinava come avanguardia tecnica e pericolo di scala mondiale, i comunisti e il maccartismo portavano la paranoia nella vita di tutti i giorni, sorgeva, inoltre, la consapevolezza verso i temi del razzismo e della libertà individuale (finalmente non solo d’impresa ma anche di espressione) dovuta alla rinnovata identità americana modellata come calco inverso del nazismo. I primi due temi vennero dipinti con mirabile precisione dal cinema di fantascienza, luogo libero perché considerato di secondaria importanza eppure capace di catturare le incertezze del presente e mostrarcele in forma metaforica e acuta. A tal proposito è impossibile non citare L’invasione degli ultracorpi e La cosa da un altro mondo come pellicole simbolo della paura delle infiltrazioni sovietiche e Ultimatum alla terra per il suo modo sorprendentemente adulto di trattare il tema dell’energia atomica come responsabilità collettiva. Da un altro punto di vista, la diffusione della televisione ha inoltre costretto il cinema a una maggiore attenzione alla forma e quindi a curare di più l’estetica dell’immagine; se il piccolo schermo diventava il luogo della diretta, del reale, allora il cinema rispondeva coi colori sgargianti, le scenografie da sogno, le coreografie provenienti da Broadway e i formati super panoramici magari proiettati su schermi curvi. Sono di questo decennio classici come Cantando sotto la pioggia, Un americano a Parigi e Sette spose per sette fratelli, canto del cigno del genere musical che non sarà mai più prodotto in modo massivo e straordinarie fughe dalla realtà, ancora oggi trasmesse e apprezzate sugli schermi domestici. I giovani americani, nel frattempo, si trovavano per la prima volta ad avere dei soldi in tasca ed erano eletti allo status di consumatori; James Dean gli insegnava a fare i duri con la faccia d’angelo (ma Montgomery Clift lo faceva già qualche anno prima) e a cercare il proprio posto nel mondo pur non avendo una guerra giusta da combattere in Europa. Quella di Corea ebbe il proprio filone cinematografico ma la sua portata immaginifica era notevolmente minore. Anche Marlon Brando raggiungeva l’apice del successo grazie a un modello di mascolinità ribelle e insolita, la cui eco si sente fortissima ancora oggi. Film come Gioventù bruciata e Un tram che si chiama desiderio sono fondamentali per comprendere l’uomo contemporaneo, ridotto alla ricerca pretestuosa di cause per dimostrare il proprio valore e letteralmente travolto dal nuovo modello di sensualità non familiare e perfino adulterina; non è un caso che siano tuttora frequentemente citati e parodiati. Il film drammatico ebbe grande diffusione per merito non solo dei divi ma anche di autori come Douglas Sirk, Nicholas Ray e Stanley Kramer (per citarne solamente tre) che lo hanno arricchito di un forte senso morale e attenzione al tema razziale.
Un gran numero di ideologie, istanze e semplici paure pesava sul cinema di Hollywood come uno sguardo indiscreto. La paranoia cominciò col lavoro del senatore McCarthy, si unì all’autocensura degli Studios, che seguivano il sempreverde principio che controllarsi da soli è meglio di essere tagliuzzati dagli altri, e si concretizzò sullo schermo in almeno due modi diversi. Il primo fu l’abbondanza di sceneggiature non originali e quindi di film tratti da romanzi, da Moby Dick a 20.000 leghe sotto i mari, dovuta alla necessità di andare sul sicuro con opere già collaudate e, si sperava, inattaccabili. Il secondo è quello che Franco La Polla definì “stile nevrotico”: l’eccesso di cautela che rese il cinema ingessato e lo privò parzialmente di quel potere di valvola di sfogo per l’immaginazione, qualità fondamentale dell’arte del Novecento. Persino i personaggi di finzione dovettero fare più attenzione alle loro parole e azioni; ciò pose, potremmo spingerci a dire, un pericoloso freno alla fantasia del pubblico.