Un condannato alla vita è fuggito
Quel vuoto che ha solo il bianco e nero, quel vuoto posto prima della creazione e dopo la sua storia, quel vuoto che ha lo sguardo: così si chiude 9 dita, di F. J. Ossang. Eppure è un vuoto di un peso tale che gli stessi personaggi ne vengono schiacciati. Abbozzati o accennati, essi sono figure intagliate ma non rifinite, che rinunciano all’individualità in favore di un’evidenza tutta esistenziale: personaggi che non sono altro che voci, ragionamenti a voce alta, cinici nell’ascolto ma appassionati nell’esporsi.
C’è molto silenzio in 9 dita, un silenzio complice che permette, lui solo, di mettere a nudo l’anima della vicenda e di far parlare l’unico personaggio onnipresente, oltre che onnivoro: la morte. Magloire scappa dal binario su cui apparentemente stava aspettando un treno e va verso il mare, qui raccoglie una grossa somma di denaro dalle mani di un uomo morente che tende un braccio irrigidito. Il gruppo criminale a cui quei soldi erano stati sottratti sequestra Magloire, ma senza un’intenzione precisa, tanto che l’ostaggio finisce col far parte del gruppo. Il capobanda ha un nome-segno: è Kurtz, e come i Kurtz di Apocalypse now (1979) e del conradiano Cuore di tenebra, guida perché è guidato da una necessità e da un’istintività sovraumane.
Dopo la scomparsa del componente più razionale del gruppo e dopo un colpo mal riuscito, il gruppo si mette in viaggio, salendo a bordo di una nave che li porterà molto lontano, con la promessa di luoghi dove arricchirsi e tenersi al sicuro. Ma la nave è un abisso, chi vi sale non ne scende che morto, legato in un sacco che sprofonda in alto mare. L’illusione di “seguire una rotta” viene presto smascherata e le certezze, come fossero le pareti dello scafo, vengono puntellate finché non diviene necessario accettare il non-ritorno e il naufragio. Esistenziale o fisico? Anche allo spettatore vien meno la certezza che il film contenga altro oltre all’allegoria. Ma come Magloire accetta la sorte, chi guarda 9 dita deve accettare un testo che tra le diverse letture non presenta la via più semplice e diretta – sulla superficie non vi è niente e tutto va colto immergendo mani, occhi e orecchie, nell’involucro. L’attimo stesso dell’immersione è consigliato e quasi indotto nella sequenza mostrata in negativo, come a dire che quel che segue è un mondo – e un’opera – al rovescio. È un mondo che fugge, senza soverchie pretese di realtà e verità – la visione, il falso e l’utopia hanno, sulla nave, pari dignità. Guardare diventa un atto penitenziale, perché chi vorrebbe “solo vedere”, come Magloire, scoperchia la consapevolezza della propria immobilità. Nel recinto della nave ci si scopre privi, paradossalmente, della necessità stessa di una direzione e anche pensare “è impossibile”. E mentre “Dio è impiegato col tempo” si cerca disperatamente una zona della terra “in cui le emozioni sono congelate”, così da non provare più dolore: ma questa terra è la perdizione, è Nowherland, forse quell’isolotto su cui Magloire infine scala un monte per trovarsi poi, in cima, di fronte ad un baratro. “Quello che fa tutto è il genitivo, non l’ablativo”: l’appartenenza – che qui è un abbandono – e non più il movimento o il modo, la causa, il fine.
9 Dita [9 Doigts, Francia/Portogallo 2017] REGIA F. J. Ossang.
CAST Paul Hamy, Damien Bonnard, Diogo Doria, Elvire, Pascal Greggory.
SCENEGGIATURA F. J. Ossang. FOTOGRAFIA Simon Roca. MUSICHE Jack Belsen.
Drammatico, durata 99 minuti.