#2 Bertrand Mandico – Otto film naufragati
Se, come c’insegnano al supermercato, nessun uomo è un’isola, neanche un film lo è. La storia del cinema è una rete infinita di citazioni, omaggi, influenze (anche casuali e imprevedibili). Ci piace pensare che la disinvoltura con cui, nel magnifico Les Garçons sauvages, il regista a cui dedichiamo il focus di questo numero, Bertrand Mandico, ricicla un immaginario eterogeneo di fotogrammi incandescenti, luoghi esotici, forme di vita ipersessuate, sia direttamente in debito con lungometraggi di trascurabile valore estetico. In altre parole, concedeteci l’illusione romantica che un grande film come l’esordio nel lungometraggio di Mandico sia l’evoluzione darwiniana di anni di trashate imperdonabili e film ambiziosi ma irrisolti, tutti accomunati dalle suggestioni narrative e paesaggistiche generate da terre circondate dalle acque.
Dalla Letchi del Ritorno di Godzilla (Giappone, 1966) alla Skull Island del recente Kong (USA, 2017), gli uomini che sfidano la natura hanno a che fare con creature difficilmente addomesticabili. Allo stesso modo, i filmmaker che si avventurano con spavalderia in territori insulari di celluloide finiscono spesso spiaggiati, come cetacei boccheggianti, anche se si chiamano Martin Scorsese (Shutter Island). Negli ultimi anni, il “cinema delle isole” è stato un termometro preciso dello stato di febbrile infantilizzazione della settima arte, nelle sue produzioni mainstream, ormai imprigionate in un loop di seguiti non indispensabili (Viaggio nell’isola misteriosa; Ritorno all’isola di Nim) e rifacimenti superficiali (Travolti dal destino).
I capolavori incompresi classificati qui sotto declinano, da oriente a occidente, otto modalità diverse di deviazione della creatività: la messinscena dell’anfibietà, nelle sue derive più detestabili. Ma nuove meraviglie del cattivo gusto verranno, a soddisfare la nostra sete di brutture bagnate. Un’alta marea di film-spazzatura ci sommergerà presto, ne siamo certi.
#8 Laguna blu (USA, 1980)
Reduce dal successo di un musical trascinante e spiritoso come Grease, Randal Kleiser prosegue l’esplorazione dell’universo adolescenziale con un altro campione di incassi, Laguna blu, ma dimentica a casa il senso dell’umorismo. La dura lotta per la sopravvivenza di due naufraghi, Richard (il cherubino Christopher Atkins) e Emmeline (la barbie Brooke Shields), unici abitanti di un’isola deserta, fra turbamenti sessuali da prima media e opacità dei corpi canonici e ben curati, a inaugurare il decennio più fighetto del Novecento. La Giamaica e le Figi regalano paesaggi da cartolina, mentre Brooke Shields ci fa dono di un’interpretazione da Razzie Award. Frase memorabile, rivolta da Richard a Emmeline: «Why are all these funny hairs growing on me?». Nel 1991, William A. Graham gira Ritorno alla laguna blu, un seguito del film, più casto, con una giovanissima Milla Jovovich. Nel remake del 2012, invece, intitolato Laguna blu – Il risveglio, torna Christopher Atkins, in un ruolo secondario.
#7 Matango il mostro (Giappone, 1963)
Il “Matango” del titolo, in realtà, è il nome dei malvagi e ridicoli funghi giganti, assoluti protagonisti del film, in cui si trasformano gli umani, finiti su un’isola tropicale. Non a caso il titolo alternativo con cui questo capodopera del weird movie giapponese fu trasmesso in tv è Attack of the Mushroom People. La paranoia per il “fungo” dell’atomica è ancora presente, in questo divertissement del creatore di Godzilla, Ishiro Honda. Ma non è da escludere una lettura del contagio e della mutazione a cui vanno incontro i poveri malcapitati, credendo di ingerire dei commestibilissimi organismi eucarioti, come metafora della diffusione della droga, nella società giapponese dell’epoca. Il contrasto natura-civiltà, con le sue conseguenze sulla vita della popolazione nipponica, è un altro tema a cui il film allude. A riportare tutto sui più scanzonati binari del b-movie, però, è la presenza della conturbante Mizuno Kumi, con il suo irresistibile sex appeal: lo sguardo di sobrio compiacimento con cui osserva i due maschi che quasi si ammazzano per lei non si dimentica.
#6 The Beach (USA/Regno Unito, 2000)
Pochi registi contemporanei suscitano l’odio dei cinefili più integralisti come il britannico Danny Boyle. Non bastano la bella fotografia e la popolarità di Leonardo Di Caprio per risparmiare a The Beach la palma di film più contestato della carriera di Boyle. Tra ammiccamenti new age, spiagge da agenzia di viaggi e musica ruffiana, in questa vacanza thailandese Boyle non si fa mancare niente. Il film, funestato da mille problemi produttivi, può risultare indigesto anche ai fricchettoni più inguaribili: gli indigeni ostili che coltivano marijuana sono l’equivalente più incattivito del coinquilino di merda che non passa la canna. Su YouTube è disponibile una versione doppiata in spagnolo che potrebbe rendere ancora più struggenti i lontani ricordi del vostro originalissimo Erasmus nella penisola iberica.
#5 L’isola dei sopravvissuti (USA, 2005)
Merita almeno di stare in top five questo film incredibilmente mediocre, affidato a un trio di attori altrettanto insoddisfacenti, tra cui spicca la prosperosa Kelly Brook, le cui mammelle, perennemente al centro di ogni inquadratura, sono senz’altro molto più espressive dei volti lapidei del cast. Dopo dieci minuti c’è già una scena erotica in montaggio parallelo, da far accapponare la pelle. E non siamo ancora sbarcati sull’isola, dove il ménage à trois si fa psicodramma del vuoto pneumatico e la noia prende il sopravvento, come sentimento leopardiano. Bisogna aspettare, infatti, quasi un’ora, perché malinconiche note di chitarra accompagnino un coito fedifrago sulla spiaggia. In compenso, gli amanti delle immersioni e dei fondali marini avranno pane per i loro denti. A un quarto d’ora dalla fine, un altro accoppiamento acquatico consacra i capezzoli della Brook come protagonisti assoluti dell’opera.
#4 Selvaggi (Italia, 1995)
Sull’aereo che precipita su un’isola del Mar dei Caraibi, c’è un campionario di varia umanità che, secondo i Vanzina, dovrebbe rappresentare, con un sufficiente livello di realismo, quasi tutte le tipologie di italiano: dall’intellettuale al disoccupato, dal destrorso al comunista nostalgico, dal settentrionale al meridionale. Con l’aggiunta, che non guasta mai, nel cinema dei fratelli Vanzina, di due modelle americane e di hit musicali anni Novanta, firmate Scatman John, Corona, Everything but the Girl. Si nominano icone del decennio come Fiorello e Berlusconi, si cerca di far ridere il pubblico natalizio con i battibecchi e gli sfottò tra volti noti della comicità italiana in tv (Ezio Greggio, Cinzia Leone, Leo Gullotta, Emilio Solfrizzi). Si omaggia il Bari di Protti e Guerrero (la partita di pallone sulla spiaggia e l’esultanza in stile “trenino del Bari”). Basterà?
#3 L’isola perduta (USA, 1996)
L’isola del dottor Moreau e dei suoi animali antropomorfi, nell’adattamento del romanzo di H.G.Wells diretto da John Frankenheimer, è un luogo maledetto, dove Marlon Brando sfiora la parodia di se stesso, recitando al fianco del solito, ineffabile Val Kilmer e delle sue uniche due espressioni – col fiore in bocca e senza –, mentre il maestro degli effetti speciali Stan Winston tenta di monopolizzare il film, con le sue creature buffe. Tra tali e tante mostruosità, il povero, spaesatissimo David Thewlis sembra non attendere altro che tornare a recitare in qualche film d’autore più credibile. La scena del parto è solo l’inizio di una serie di apparizioni di ributtanti scherzi della natura, una fauna che sembra nascere dall’incrocio tra i primati de Il pianeta delle scimmie e il popolato universo di Star Wars. Il clou, forse, è nel duetto al piano tra l’obeso Brando e il piccolo grande Nelson de la Rosa.
#2 House of the Dead (USA/Germania/Canada, 2003)
Uno zombie-movie tra i peggiori mai visti sul grande schermo, prequel del videogioco omonimo, con un paio di sequel che gridano vendetta. Empire l’ha inserito nella sua classifica dei cinquanta peggiori film della storia, con pieno (de)merito. In effetti, il regista Uwe Boll non è esattamente un maestro del cinema e la colonna sonora è quanto di più fastidioso e inutile si possa ascoltare. Isla de la Muerte è il luogo ideale per ambientare la lotta all’ultimo sangue tra i morti viventi, controllati dal prete Castillo Hermano, e un gruppo di stupidi adolescenti, che volevano solo partecipare a un rave. Il personaggio più complesso e tormentato è il giovane belloccio che, sfregiato al volto dallo zombi che gli ha vomitato addosso, decide di suicidarsi, perché non può vivere senza la sua bellezza. Tra tentativi maldestri di bullet time e inserti videoludici, il sogno di un fertile scambio tra due media sempre più vicini svanisce nel nulla.
#1 Che ne sarà di noi (Italia, 2004)
Scritto dal regista Giovanni Veronesi con Silvio Muccino – il James Dean asmatico, e con la zeppola, che ci meritiamo, il nostro Tommy Wiseau berciante è anche uno dei protagonisti – è un romanzo di formazione appartenente all’insopportabile sottogenere delle vacanze post-liceali. L’isola greca di Santorini è il teatro della vicenda, è lì che sono diretti questi odiosi esponenti della gioventù italica. Il coming of age all’amatriciana procede innocuo come una vasectomia, sulla strada già segnata degli amorazzi fugaci e dei giorni perduti a rincorrere il vento, sin dall’incipit, con la testa di Muccino tra le tette di Violante Placido, in una delle scene erotiche più brutte della storia del cinema italiano. Elio Germano pare essere l’unico in grado di recitare, in un cast costretto a pronunciare dialoghi improbabili e retorici. E quando la voce over ci svela i pensieri dei personaggi, apprendiamo che ci sono fanciulle che riflettono su come «i desideri, finché rimangono tali, sono come i sogni, mentre invece nella vita, quando uno vuole una cosa, deve sapersela prendere». E soprattutto, su come «gli indiani d’America, quando si accoppiano, lo fanno in silenzio».