Indefinito e pericoloso
Siamo davvero orgogliosi di proporvi in questo numero un vasto approfondimento su Bertrand Mandico, autore francese incoronato dai Cahiers du Cinema al primo posto della sua classifica dei film migliori del 2018. L’abbiamo fatto innanzitutto per curiosità, perché, citando Roger Ebert, «mentre uno spettatore deve avere un buon motivo per vedere un film, un critico deve avere un buon motivo per non vederlo». L’abbiamo fatto poi per scommettere su un artista il cui immaginario ci appare unico, per spirito d’indagine critica, per offrirvi di Mandico una visione a tutto tondo che finora, sul web italiano, manca.
Per tutto febbraio cinque dei nostri autori hanno esplorato, proprio come i cinque ragazzi selvaggi di Les garçons sauvages, tutta la filmografia di Bertrand Mandico, come fosse un’isola non segnata sulle carte della storia del cinema, un’isola unica nel suo genere, contenente anch’essa una perla lucida e perfetta e anch’essa in grado di cambiare, profondamente, chi la visita.
A chi accetta la sfida di fare l’esperienza di un film di Mandico, appaiono subito chiare tre cose: si parla di corpo, di cinema e di società. Di corpo, sottolineo, quindi di materia, di tutto ciò che è vivente, che cambia, che muore e che si riproduce, non solamente di sesso. Si cita spesso come suo “padre” cinematografico Borowczyk, anche in forza del palese omaggio di Boro in the Box, ma confrontando i due è facile vedere come sia elaborato un concetto di sessualità del tutto differente: nel polacco è liberazione, trasgressione e infine conquista, nel francese invece è ricerca di vitalità, è il segno empirico dell’esistere ed è al tempo stesso ricerca di spazi sconfinati e claustrofobia. Se si può parlare di pornografia in Borowczyk, dove si investe sulla sensualità e sul piacere di vedere, non se ne può assolutamente parlare in Mandico, dove i corpi non sono sensuali ma solo, fortemente, sessuati.
Discorso differente rivendica l’erotismo, inteso come forte tensione mai risolta tra più elementi: il cinema di Mandico è totalmente erotico, in ogni suo aspetto. È erotico nel montaggio – le inquadrature si alternano ma raramente un’inquadratura successiva somma i soggetti: o c’è una cosa o c’è un’altra, in dialogo e opposizione perenne. È erotico nell’immagine – sono frequentissime le doppie esposizioni che sommano, con la giusta pregnanza simbolica e figurativa, oggetti anche diversissimi e del tutto decontestualizzati. È erotico nei suoi stessi personaggi – animali contemporaneamente vivi e morti, figure sia maschili che femminili, esseri incompleti, ora poveri di spirito e ora in cerca dell’assoluto. È erotico nel suo citazionismo denso e ampio – richiama alla mente, ricrea, ma non riproduce, lasciando spazio a quello iato in cui di frequente si insinua la forza di un autore cinematografico. La sua forza sta nel linguaggio? Forse sì. Nel suo lessico appreso e rimescolato in un personalissimo dialetto, figlio di un’idea di storia del cinema aprospettica, in cui tutto è o può essere, nuovamente, contemporaneo.
Ma contemporaneo a cosa? Mandico in nessuno dei suoi film sfrutta una definita collocazione temporale, quasi fosse limitante, ma si può dire che faccia comunque riferimento all’oggi? Personalmente credo di no, i suoi film affrontano l’assoluto nella sua ripetizione – «non siete né i primi né gli ultimi, su questa barca», dice il Capitano – l’immersione nel tempo ne connoterebbe gli elementi e lui evita la definizione di qualsiasi cosa. Quel che è definito sta fermo, mentre il suo cinema è movimento. Per lo stesso motivo non sono qui applicabili categorie come l’assurdo, il realistico, il verosimile: dove tutto è creazione infatti non esistono forme a cui assomigliare. La società di produzione fondata, tra gli altri, dallo stesso Mandico, ha un nome di cui tener conto: L’oeil qui ment (L’occhio che mente). Ma l’occhio di chi è? È l’occhio della cinepresa o l’occhio dello spettatore? O l’occhio di entrambi, magari fuso come per Boro? Scegliere l’una o l’altra strada aprirebbe ampi percorsi interpretativi, soprattutto perché bisognerebbe collocare la menzogna. Se l’occhio è quello dello spettatore, egli può mentire o come individuo – in reazione alla società, annullandosi e percependo quello che “tutti” percepirebbero – o come rappresentante della società stessa – scoprendosi individuo. Di fronte agli shock visivi di Mandico mentire è difendersi, conservarsi, e mentire è inevitabile, come per i ragazzi selvaggi nel processo che li vede accusati di stupro, mentre l’avvocato nel pronunciare l’accusa conclude tuonando “Credere?”, e la risposta non è data. Anche qui: la verità è immobile, mentire è stare in bilico, tendere al movimento. Del resto i cinque ragazzi preferiscono la libertà senza destinazione del mare aperto, all’autoritario capitano: il pericoloso indefinito al rassicurante tragitto prefissato.