Yorgos Lanthimos, il narratore di un’umanità crudele e violenta
Yorgos Lanthimos è padre di un cinema feroce e disilluso, narratore di un’umanità crudele e violenta, incapace di provare sentimenti, creatore di storie quasi fantascientifiche, di fiabe nere che stupiscono e spaventano lo spettatore. Lanthimos, uno dei più interessanti registi greci, in grado di rimanere coerente con se stesso e con la sua poetica anche quando acquista fama internazionale (nel 2009 con Dogtooth partecipa a Cannes nella sezione Un Certain Regard e nel 2011 presenta a Venezia Alps, vincendo il premio per la miglior sceneggiatura) e inizia a girare in lingua inglese, non è demiurgo di opere rassicuranti e consolatorie bensì di titoli che sono come dinamite di fronte agli occhi e nella mente di chi guarda.
Sia che si tratti del “cinema greco” sia di quello internazionale, in cui compaiono Colin Farrell, Nicole Kidman per citarne alcuni, porta su grande schermo storie complesse, smembra le vite degli uomini e delle donne, smantella i cardini su cui poggia la società moderna per edificare nuove “costruzioni” sociali. Il regista con un rigore ed una freddezza al limite del “patologico” osserva, penetrandone la “sacralità”, la famiglia, le ossessioni, le pulsioni, le fobie dei personaggi; quel nucleo, tanto caro a molte culture, non è più il luogo della pace e della serenità, dove si impara per poi spiccare il volo, ma quello in cui si teme tanto il mondo esterno da rinchiudere moglie e figli dentro quattro mura, costretti a scegliere chi tra i propri cari sacrificare. In Dogtooth ad esempio il crudele Padre cresce figli con false Idee (il gatto è l’animale pericoloso, da temere perché mangia il cane), li immobilizza in una prigionia intellettuale oltre che fisica (potranno uscire solo quando cadranno loro i canini che li rendono più simili ad animali che a giovani adulti), si erge a Dio che insegna, dice, ordina. Il protagonista crea una dittatura dell’ignoranza, è lui che decide ciò che i suoi “cuccioli” possono e devono sapere, rinchiude la sua famiglia perché al di là del cancello di casa tutto potrebbe essere fonte di male, corruzione e contaminazione, finchè ad un certo punto tutto ciò che viene tolto gli si ritorce contro. Un altro padre che diventa Dio è il protagonista di Il sacrificio del cervo sacro in cui un cardiochirurgo, il Dr. Steven (Colin Farrell), deve fare i conti con i propri errori (non è riuscito a salvare il padre di Martin), situazione che si ripercuote sull’intero nucleo familiare che vive in una borghese, asettica dimora in cui tutto è artificiosamente perfetto. Lanthimos, anche qui, non fa sconti, butta in un inferno insondabile il medico che all’improvviso, a causa del figlio del suo paziente morto, si trova di fronte ad una dolorosa e quanto mai ingiusta scelta: chi tra la moglie e i due figli merita meno di vivere? Il cineasta, come spesso fa, sovverte la norma, annulla lo status quo, prende la tragedia di Ifigenia e la rende ancora più straziante, lacerante e disturbante per la violenza dell’immagine. È uno sguardo freddo quello del regista mentre insegue i giorni di Steven che vede spegnersi a poco a poco le sue creature e la sua consorte. Deve scegliere, ma questa scelta appare sempre più disumana proprio perché l’uomo di Lanthimos è svuotato di tutto, talmente impoverito da essere azzerato nella sua pietas – il chirurgo arriva addirittura a interrogare il preside della scuola dei suoi figli per sapere chi di loro sia più meritevole di rimanere al mondo.
Il suo cinema gioca atrocemente con i valori della società, qui ad esempio fa a botte con la Giustizia: in Il sacrificio del cervo sacro ci sono regole altre, Martin vuole far pagare a tutti i costi chi ha ucciso il proprio padre e il medico, a sua volta, si vendica seviziando il giovane che ha in pugno i suoi cari; così la parabola si snoda come una storia spaventosa e “oscena”, penetrando due menti perverse. Nella stessa maniera il regista straccia precetti importanti del vivere umano, crea trappole metaforiche di cui lo spettatore diventa affascinato e turbato osservatore, cavalca il disagio dell’individuo anche in altri suoi film: distrugge il confine labile tra realtà e messa in scena (Kinetta), trova un’innaturale soluzione alla morte (Alps), racconta la solitudine nel modo più lancinante possibile (The Lobster). Lanthimos fa diventare le sue pellicole narrazioni truci e autistiche di un universo distopico in cui gli esseri umani sembrano automi, capaci quasi esclusivamente di replicare gesti, interpretare ruoli, fare orwellianamente ciò che gli si ordina. Così è distonicamente normale nella poetica di Lanthimos pensare che un impiegato statale e il proprietario di un laboratorio fotografico con l’aiuto di immigrate clandestine possano ricostruire cinematograficamente reali scene di violenze sulle donne, immaginare che possa esserci qualcuno che per lavoro vesta i panni del defunto, credere che un uomo, lasciatosi con la compagna, possa venire rinchiuso in una sorta di lager per ritrovare l’amore. È inconcepibile per la società del futuro – al regista non servono effetti speciali né oggetti volanti – ipotizzare che qualcuno possa voler vivere da solo, che possa bastarsi; da qui emerge un umorismo grottesco e provocatorio che accompagna anche i momenti più truci e sanguinari, una vena che può disturbare ma può anche aprire inaspettati varchi per una profonda riflessione. Con ogni suo lavoro l’autore è riuscito ad analizzare in modo complesso e violento l’identità e la società, rimanendo sempre riconoscibile anche mentre tutto intorno a lui cambiava e si evolveva.
Quello di Lanthimos è un cinema di futuri prossimi, di luoghi indefiniti, fatto di asperità tanto acuminate da ferire, di spigoli tanto appuntiti da penetrare nelle carni, di laboratori sociali, di cavie messe sotto una spietata lente d’ingrandimento. È un’arte che mostra un uomo che tenta di chiudere fuori il dolore, la paura, la morte.