Il narratore di contadini, boom economico e Dio
Ci sono immagini di film che restano impresse nella memoria, ci sono titoli che formano ciò che siamo, i nostri pensieri, il mondo delle idee. I padri di questi film sono amici, genitori accoglienti, educatori sempre presenti, compagni di avventure strepitose e mitologiche.
Sono i Grandi Autori, quei Grandi Maestri che sono presenze costanti, che fanno parte di ciò che lo spettatore ha visto, di ciò di cui è stato partecipe. Quando se ne vanno ci si sente smarriti, soli, si ha la sensazione di essere stati abbandonati da qualcuno che ben si conosce, che, in un modo o nell’altro, ha fatto parte e fa parte di noi. Proprio questo senso di perdita ha preso lo spettatore il 5 maggio di quest’anno, una data orribile per il cinema italiano, data in cui ci ha lasciato Ermanno Olmi. Un giorno triste per chi è cresciuto, si è formato grazie ai grandi film del regista di Bergamo, narratore di una solitudine smisurata, di un’Italia rurale che non esiste più, dell’incontro poetico e struggente tra uomo e natura e di una storia individuale e universale insieme. È stato cantore degli ultimi, documentarista, “storico” (Torneranno i prati, Il mestiere delle armi), cesellatore di allegorie, scrittore di fiabe, uno e molti di più, un visionario innovatore capace di affondare a piene mani nei Grandi, ed anche un uomo profondamente fragile (colpito dalla depressione dopo una malattia invalidante, restò lontano dal set per un lungo periodo).
Olmi esordisce, negli anni Cinquanta, da dilettante con una cinepresa per la Edison, l’azienda per cui prima ha lavorato il padre, morto per le ferite riportate in seguito ad un bombardamento, poi sua madre e infine lui stesso come fattorino. La Edison è stata per il giovane il mondo intero, una grande famiglia, quasi il suo paese. Olmi vi realizza vari documentari da cui emergono chiaramente alcuni temi fondamentali della sua cinematografia: il racconto del processo di industrializzazione in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’interesse per l’uomo e per la sua condizione.
La sua prima opera per il grande schermo – che sarebbe dovuta essere un lungometraggio proprio per la Edison – è Il tempo si è fermato (1958), racconto di Roberto, uno studente universitario, che affianca nel lavoro Natale, guardiano di una diga, con cui stringerà poi una solida amicizia. Fin da questa prima opera, in cui si possono vedere un rigore e una semplicità, tipici del Neorealismo, nonostante Olmi non ne abbia fatto parte, è chiaro l’interesse del cineasta per il rapporto tra uomo e uomo, ma anche l’amore da lui provato per un mondo che “respira” delle sue origini rurali (ha abitato con la nonna a Treviglio).
È stato poeta di quella che definì l’unica, vera, insostituibile civiltà che si può definire compiuta, quella contadina; non è un caso infatti che il suo capolavoro sia L’albero degli zoccoli, vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 1978, in cui scrive senza sentimentalismi la favola di una società contadina in lingua bergamasca. Le quattro famiglie di contadini, le loro storie, le loro giornate faticose, profondamente “umane”, si mescolano alla grande Storia e si intrecciano in uno stretto nodo acquistando una dimensione poetica.
Se Olmi è stato in grado di narrare la condizione contadina è stato capace anche di mostrare quella operaia, di parlare di chi si apre ad un mondo prossimo al cambiamento: in un articolo (Il posto di Olmi precursore di Dogma) pubblicato su La Repubblica il 5 giugno 2001, Olmi dice che nei suoi primi film ci sono storie sulla povertà in cui però riverbera la storia d’Italia, di una nazione colta in un momento di transizione. In Il posto infatti la cascina di Domenico, protagonista del film, in cui prima ci si riposava dalle fatiche dei campi, ora, invece, è dormitorio per chi l’indomani va a lavorare in fabbrica e in città. Nella storia del giovane c’è il boom economico dei primi anni Sessanta, c’è tutta l’ansia dei genitori che sperano che il loro figlio trovi un lavoro grazie al quale sistemarsi per tutta la vita. Non c’è mai però in Olmi un teorema sociale, staccato dalla realtà umana, ma – egli lascia che sia lo spettatore a riflettere sulla sorte dei suoi personaggi – vi è sempre una profonda analisi di ciò che abita l’individuo. La stessa sensazione si ha con I fidanzati dove, attraverso la storia di Giovanni, trasferitosi in uno stabilimento siciliano da un’azienda milanese, c’è ancora una volta una totale attenzione verso il quotidiano, verso le cose semplici (le lettere d’amore tra lui e la fidanzata Liliana), verso le vicende del mondo operaio.
In Olmi c’è posto anche per un altro grande tema, la religione, che lo ha turbato, tormentato, affascinato e accolto fin da ragazzo. È un rapporto inquieto che lo ha reso fedele dubbioso, errante nella ricerca, adepto di quella religione dei poveri. Così in E venne un giorno compone un racconto delicato, attento e biografico di papa Giovanni XXIII, mentre in Camminacammina mostra una delle cifre della sua cinematografia, proprio nel film dedicato ai Magi: l’indagine appunto e quella fede degli ultimi tanto genuina quanto “carnalmente” legata alla terra. Continua questo percorso con la parabola cristologica di Centochiodi e con Il villaggio di cartone, manifesti di un cinema “provocatorio” e anche critico nei confronti di un certo cattolicesimo, in cui si celebrano atti di fede ancor più profondi: un uomo di lettere che abbandona tutto per ricongiungersi con la natura e una chiesa ormai inagibile che diventa asilo degli esclusi ed emarginati della società.
In questo breve percorso appare ancor più chiaramente la solitudine in cui chi ha amato Olmi e il suo Cinema si trova ma è anche altrettanto evidente che la sua arte è talmente vitale, vibrante e potente da essere imperitura e rimanere quel posto in cui ricongiungersi con il sé più intimo, con la propria natura più arcaica e “modesta”, con la Fede smisurata e alta, anche se molto lontana da noi.