Una vita allo specchio
Non c’è motivo iconografico più efficace dello specchio per analizzare l’opera multiforme e polisemica portata avanti da Ingmar Bergman dal 1942, anno in cui fu assoldato come sceneggiatore alla Svensk Filmindustri, fino al 2003, data di uscita di Sarabanda, ultimo lungometraggio girato in digitale per la televisione.
Il primo amore dell’eclettico uomo d’arte fu però il teatro, per il quale compose allestimenti prosastici quando frequentava l’università a Stoccolma e, successivamente, luogo di sperimentazione in cui iniziò il proprio cammino come assistente alla regia. Lo specchio, nelle sue opere più rappresentative, può apparire come amplificatore del doppio e del molteplice dell’esistenza (Monica e il desiderio, 1953) o materializzazione della recherche proustiana (Il posto delle fragole, 1957) perché l’essere è nell’apparire, in una purezza contaminata, in una riconciliazione impossibile, è ebbrezza del dionisiaco innervato in un apollineo fatto di torbidi e colpevoli sguardi in macchina (ancora Monica e il desiderio), ambienti claustrali e nebbie ovattate (Luci d’inverno, 1963), pietà femminili e silenzi assordanti (Sussurri e grida, 1973), immaginari saturi che connettono il teatro alla vita (Fanny e Alexander, 1982).
Ma lo specchio è soprattutto quello in cui si riflette Bergman al culmine del suo narcisismo da bulimico metteur en scène. Egli è stato aedo e rapsodo della sua epopea, cantore unico delle sue gesta, padrone assoluto dell’irrazionale al quale si è sempre dichiarato devoto e di cui si considera adepto fin dalla scoperta infantile delle ombre venute fuori dal proiettore meccanico “con il suo comignolo ricurvo, la sua lente d’ottone ben modellata e il supporto per le pellicole”; falsificatore compulsivo della propria e delle altrui storie, creatore di immagini, rivoluzioni su schermo e mise en abyme che si aprono sulle quinte di un palcoscenico o che lentamente digradano in dissolvenze dall’ampio significato simbolico o di intensa drammaticità.
Capace di inscenare la morte del cinema narrativo e contemporaneamente di decretarne la rinascita come artefatto moltiplicatore di utopie (Persona, 1966), il genio svedese è riuscito a diventare il più classico dei moderni, a portare a galla le inquietudini di una società lacerata in un cinema filosofico e materico, ossessionato dal topos della maschera (il “vogel” di Il volto, maschera di nome e di fatto), da un “ateismo” cristiano che incrocia deliri puritani e schizofrenie giudaiche in un denso impasto di filosofia e bruciante umanesimo. Trainato dall’autorevole presenza di due grandi fonti d’ispirazione come il luminoso regista Victor Sjöström e il cupo drammaturgo August Strindberg, il motore dell’immaginario bergmaniano si è nutrito della joie cavalleresca che ha raccontato in Il settimo sigillo e, sempre nel glorioso e terribile 1957, ha dispiegato nel melanconico “posto delle fragole” una narrazione che eregge ancora una volta la morte, e la sua maschera, al di sopra del tempo umano, al crocevia tra la lucidità dell’incubo e la fallacia dei sogni. Il suo è sempre stato un cinema del conflitto e dello shock, colmo di sperimentazioni linguistiche e attento alla rappresentazione della sensazione racchiusa nel concetto, svelato con accurate scelte stilistiche o con dialoghi pregni di un nichilismo “attivo”, capace di celebrare la vita dei suoi personaggi attraverso l’elaborazione costante del proprio tormento interiore e del proprio inconscio.
A partire dagli anni Ottanta Bergman sperimenterà i piccoli formati e troverà nuovi specchi nei quali celebrare definitivamente la vita e le sue pulsioni, anche se la sua straordinaria carriera sarà sempre e comunque contrappuntata da una “sonata di spettri”, revenant e doppi che cercano il proprio posto in un mondo ostile, uomini scollati dalla realtà, in bilico tra verità e menzogna, perennemente in cerca di un antidoto al male di vivere rappresentato dall’angoscia della scelta, dal conflitto con gaudenti arcidiavoli e cinici imbonitori, dall’impossibilità di capire chi siano realmente, all’interno di un teatro dell’anima, le marionette messe in scena e chi siano invece i perfidi burattinai. Il viaggio in una mitologia privata che Bergman, tra fiero autobiografismo e falsificazioni studiate, apre al grande pubblico era partito da molto lontano, dalle magiche ombre prodotte dal proiettore meccanico che ricevette in dono in tenera età, ed è proseguito fino alla scoperta del più importante degli shock, quei «ventiquattro quadratini illuminati al secondo e, tra essi, il buio».