Sulla via dell’indipendenza
Nel 1955 uscì nelle sale cinematografiche e vinse il Leone d’Argento a Venezia Il grande coltello, pellicola sulla crudeltà del sistema hollywoodiano nella quale vi lavorarono insieme per la prima e unica volta due delle personalità più particolari del cinema statunitense dell’epoca come Robert Aldrich (in veste di regista) e Ida Lupino (come attrice co-protagonista), delle quali proprio nel 2018 è ricorso il centesimo anniversario.
I due cineasti non condividono, però, soltanto l’anno di nascita, ma – almeno in parte – anche lo sguardo disincantato sul proprio tempo e il tentativo più o meno riuscito d’intraprendere un percorso indipendente pur restando a Hollywood.
Nata a Londra da una famiglia di attori teatrali, Ida Lupino cominciò la sua carriera di attrice negli anni Trenta prima in Gran Bretagna e poi negli States, dove diventò famosa nel decennio successivo con film come Strada maestra e Una pallottola per Roy, entrambi prodotti dalla Warner Bros, diretti da Raoul Walsh e recitati da Humphrey Bogart, anch’egli nei suoi primi ruoli rilevanti.
In costante conflitto con la casa di produzione, l’attrice cercò una via sempre più autonoma, arrivando nel 1949 a fondare insieme al marito Collier Young una propria società indipendente, la Emerald Films (poi rinominata Filmakers), per la quale diresse sei pellicole, diventando una delle poche registe donne dell’epoca. La sua esperienza da indipendente durò però solo fino al 1954, quando la compagnia dovette chiudere a causa di alcuni problemi finanziari.
Dal canto suo, Robert Aldrich cominciò la sua gavetta negli anni Quaranta ricoprendo più mansioni alla RKO e in altre produzioni cinematografiche e televisive (tra cui l’aiuto regista di Jean Renoir in L’uomo del sud e di Charlie Chaplin in Luci della ribalta), per esordire alla regia di un lungometraggio nel 1953 con Il grande alleato.
A sua volta in contrasto con i produttori, Aldrich capì presto che il modo migliore per portare avanti i propri progetti era quello di essere autonomi, ed è per questo che nel corso della sua carriera creò alcune società di produzione, tra cui la Associates and Aldrich, inaugurata nel 1955 proprio con Il grande coltello.
I due cineasti, però, non risultano simili solo per il tipo di percorso lavorativo, ma anche per lo sguardo disincantato verso il proprio tempo e, in particolare, verso la società statunitense, ritratta nelle sue contraddizioni e nelle sue paranoie.
Questo è riscontrabile in tutti i sei lavori diretti dalla Lupino per la Filmakers, i quali riflettono indirettamente le paure dell’America del dopoguerra e degli anni Cinquanta. I suoi primi tre film (Non abbandonarmi, Never Fear e La preda della belva) costituiscono un’ideale “trilogia sul trauma” che mira a immergere lo spettatore nell’incubo di alcune ragazze la cui quotidianità viene bruscamente interrotta da uno shock inaspettato (gravidanza indesiderata, malattia, stupro), interpretabile anche come lo specchio indiretto delle angosce del Paese.
Un possibile sottotesto “sociale” che emerge anche nelle opere successive dell’autrice, le quali raccontano usando i canoni del noir o del mélo i desideri e le frustrazioni del ceto medio: la brama di lusso e di ricchezza di una donna di mezza età (Hard, Fast and Beautiful), il confronto con il male da parte di due piccoli borghesi (La belva dell’autostrada), la bigamia di un commesso viaggiatore che vuole fuggire da una vita fredda e dedita solo agli affari (La grande nebbia).
Diversamente da Ida Lupino, Robert Aldrich ha intrapreso una carriera registica lunga (il suo ultimo lavoro è California Dolls, del 1983), durante la quale ha affrontato storie e generi differenti (western, guerra, noir, drammi da camera), ma il suo sguardo critico sulla società statunitense risulta comunque piuttosto palese.
Vanno sicuramente citati in questo senso il western sulla persecuzione degli indiani L’ultimo Apache, il dramma sulla crudeltà del mondo dello spettacolo Che fine ha fatto Baby Jane? e, in modo particolare, il noir apocalittico Un bacio e una pistola. Girato con uno stile aspro e intriso di un’atmosfera malsana, quest’ultimo titolo è giustamente diventato famoso per la sequenza in cui la scatola cercata dai protagonisti fa scoppiare un intero edificio. E anche se il contenuto esplosivo della custodia è un chiaro rimando alla bomba atomica (non a caso in tempo di guerra fredda), esso può rappresentare metaforicamente anche tutti i mali e le angosce che affliggevano gli States del tempo, dalla caccia alle streghe all’ipocrisia, dalle paura per i sovietici al conformismo.
In tale direzione, le poetiche dei due cineasti sono avvicinabili, anche se prendono direzioni linguistiche e narrative diverse: la Lupino parla di persone comuni con uno stile volutamente sobrio e a tratti dimesso che unisce – soprattutto nei primi tre film – una rappresentazione realista a dei momenti più interiori e soggettivi; Aldrich racconta invece di antieroi a loro modo straordinari tramite una regia secca, ruvida e a volte “irregolare”, che in qualche modo anticipa il cinema moderno degli anni Sessanta e Settanta.
In ogni caso, entrambi i cineasti hanno pagato il loro percorso lavorativo e autoriale, la Lupino restando ai margini di Hollywood (dopo la chiusura della Filmakers lavorerà soprattutto per la televisione e tornerà a girare un lungometraggio solo una volta con il meno personale Guai con gli angeli), Aldrich facendo una carriera commercialmente altalenante, divisa tra grandi successi come Quella sporca dozzina e flop clamorosi quali L’assassinio di Sister George.
Un destino forse inevitabile per due personalità indipendenti e in qualche modo “irregolari”, rappresentanti di un cinema libero e critico, e accomunabili per questo ad altri cineasti a loro contemporanei, come Samuel Fuller e, almeno in parte, Don Siegel.