AD OCCHI CHIUSI – A cura di Erasmo De Meo
Un cane cieco tra “quello che suona”
Tutto parte da qui: la mia vicina di casa ha un cane cieco. Ha perso la vista con l’età e a quanto pare vede solo le ombre. Al contrario però ha sviluppato un udito ancora più acuto e intelligente di quanto già non lo sia in genere quello dei cani. Tempo fa la incontrai, aveva il cane al guinzaglio, le chiesi cosa stava facendo e mi disse che stava per andare al cinema. Io per scherzare le chiesi «Con il tuo cane?» – non è una cosa impossibile, è una pratica che si sta diffondendo e qui e lì vi sono eventi speciali anche in Italia, ma io mi aspettavo un no – e lei disse «No, ma penso che con le sue orecchie farebbe caso a molte più cose di quanto possiamo noi». Aveva ragione e mi ha fatto pensare.
Il suono di un film esattamente cos’è, che posizione occupa, dov’è? È un po’ come chiedersi cos’è il colore di un quadro, cos’è il materiale di una scultura o cos’è il timbro di una canzone: il suono è consustanziale al film, è un suo attributo, aristotelicamente parlando. Ma a differenza di colore, materiale e timbro, per percepirlo e analizzarlo usiamo un senso solo, l’udito, che non esaurisce la fruizione dell’opera; alla pittura, alla scultura, alla musica, invece, basta un senso soltanto. Sarebbe certamente bello anche toccare una scultura di Rodin, anche annusare un quadro ad olio di Manet e una sinfonia di Mahler ascoltata in cd è incomparabile con l’impatto visivo dato da un’orchestra, ma questi non sono requisiti essenziali al giudizio ed, eventualmente, al godimento. Il cinema invece è, come il teatro o l’opera, un’arte per due sensi. Ma è qui che il discorso si complica: i due sensi, di fronte ad un audiovisivo, danno come risultato una percezione unica o duplice? Ciò che ascoltiamo e vediamo è inevitabilmente una sintesi oppure il suono in un film può essere considerato, isolato e giudicato di per sé, oltre l’immagine, o – si potrebbe anche dire – “nonostante” l’immagine? Condivide lo stesso spazio dell’immagine, ne crea uno suo o ne crea uno per l’immagine? Nel numero di Ottobre di Mediacritica già scrissi del suono come dimensione aggiunta dell’immagine, senza però “entrare” in tale dimensione. Partendo da qui ascolteremo, con questa rubrica, i film come fossero suono, “ad occhi chiusi” quindi, aprendoli talvolta solo per guardare come l’immagine si lega al suono – e non viceversa.
Se si escludono film di ricerca sul linguaggio o le opere frutto di scelte radicali, i film che passano in sala, alla tv o sui nostri computer mescolano spesso diverse modalità di audiovisione, anche estreme, più di quanto si percepisca in una visione quotidiana e non analitica. Molti dei film usciti quest’anno – noi ne useremo alcuni – hanno un aspetto ricorrente: utilizzano palesemente il suono per definire uno spazio, che potremmo definire “spazio dell’attenzione”, che il più delle volte supera l’immagine e la sopravanza. Il suono, a ben vedere, fa quello che visivamente si ottiene con la profondità di campo – restringe la definizione ad un insieme ristretto di oggetti nel quadro – ma lo fa non all’interno dell’immagine ma attorno ad essa, in una tridimensionalità – a volte quadrimensionalità quando gioca col tempo dell’inquadratura – spesso più logica che spaziale.
In Corpo e anima due sequenze mostrano il protagonista seduto nel proprio ufficio, non è da solo nonostante gli interlocutori siano inquadrati poco o nulla, tutta la sua attenzione è oltre la finestra aperta al suo fianco: in entrambi i casi il suono di ciò che c’è fuori finisce per sovrastare, con una graduale dissolvenza, le parole dette all’interno dell’ufficio. Lo spazio si fa più grande – una scena simile su una sceneggiatura è segnata come interno o esterno? – ed è tutto focalizzato nel cortile dove i dipendenti del macello in pausa parlano, scherzano e imitano la donna neoassunta di cui il protagonista si sta innamorando. Qualcosa di simile accade in Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Tutta la città è in fermento per le accuse contro lo sceriffo Willoughby esposte in rosso sui tre cartelli pubblicitari, quando lo sceriffo rientra in città l’inquadratura è dall’interno dell’auto ma si sentono i commenti degli uomini sui marciapiedi: di nuovo un sonoro fuori-posto, di nuovo uno spazio aumentato, di nuovo un’immagine che è oggetto del suono. L’attenzione in tali casi è tutta nelle orecchie, gli occhi fanno fatica a soffermarsi su qualcosa di specifico, come se non si vedesse altro che sfocatura.
Nei casi in cui l’immagine invece si impone ed è autonoma, significante, degna di tutta l’attenzione possibile, il suono agisce spesso in modo contrario: invece di ampliare si concentra, si raffina, si carica di alte frequenze (la nostra mente collega le basse frequenze agli oggetti grandi, le alte ai piccoli). Se la sua sorgente nel caso precedente si nascondeva perché fuori campo, ora si cela rimpicciolendo, e l’invisibilità crea da sé uno spazio altro, differente. Ci vengono in aiuto due colazioni viste quest’anno sul grande schermo, in entrambi i casi i suoni dei biscotti frantumati, dei cereali versati, del coltello raschiato, della masticazione sono in primo piano e sembra non vi sia altro nell’ambiente. Ne Il filo nascosto la rumorosità di Alma irretisce e quasi scandalizza il sarto-stilista Reynolds Woodcock – il suono piccolo è così grande alle orecchie di Woodcock che crea una separazione tra lui e la sua compagna: suono che scinde, suono che distingue. In La terra dell’abbastanza Mirko e Manolo sanciscono al contrario la loro amicizia con la loro rumorosità, masticano con la stessa foga con cui si stanno apprestando ad affrontare la vita e l’ingresso nei circoli malavitosi romani – suono piccolo che unisce chi riesce ad ascoltarlo.
Hannah porta alle estreme conseguenze quanto detto finora, tutti gli interlocutori della protagonista sono perlopiù sole voci, in dialoghi con campo senza controcampo: lo spazio del suono è tutto attorno alla profondissima solitudine di Hannah, c’è un dentro e c’è un fuori e attraversare il confine costa fatica. Emettere suoni è penetrare in nuovi spazi dove vi sono potenziali nuove immagini. Come in Lady Bird: l’ultima inquadratura-suono del film è l’inizio di un sospiro non concluso – la boccata d’aria prima di mettere piede nella vita adulta. Dopo quel suono tutto sarà nuovo.
L’immagine sembra così a volte diventare una ripresa parziale, concentrata e frammentaria di “ciò che suona”. Se il suono è lo spazio, l’immagine è una sua sezione. Se nel suono c’è tutto, l’immagine è sottrazione.