Le sale contro Netflix: grosso guaio a Little Italy
Novembre 2018. Storica monosala fiorentina, unica proiezione di Still Recording, bel documentario (sottolineate mentalmente quest’ultima informazione) di cronaca in prima linea degli scontri nella regione della Douma, diretto da Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub. Costo del biglietto: 10 euro.
Pochi giorni dopo. Multisala milanese, Almost Nothing – Cern: la scoperta del futuro, sorta di contrappunto familiare de Il senso della bellezza, diretto da Anna de Manincor e Zimmer Frei. Anche questo documentario. Costo del biglietto: 10 euro.
Il problema è Netflix. Lo dicono le associazioni di categoria, gli esercenti, lo ribadiscono le scelte di uno dei più importanti festival al mondo – Cannes – genuflesso di fronte a un sistema, quello francese, ancora abbastanza forte per imporre le proprie (s)ragioni al mercato globale. Il problema è Netflix, che mette a disposizione di una platea di 125 milioni di abbonati (occhio, non di utenti, chi vuol capire capisca) film dimenticati dalla distribuzione come Pieles di Eduardo Casanova o Nocturama di Bertrand Bonello e che permette inoltre agli utenti medi della piattaforma – divoratori di serie, che di sicuro non pagano 9, 11, 13 euro al mese per l’offerta cinema – di avere accesso a titoli come Roma, di Alfonso Cuarón, che mai sarebbero andati a cercare in una delle 59 sale italiane dove è attualmente in programmazione (sarebbero state 10 se non avesse vinto Venezia).
Il problema è Netflix. Lo dicono i dati dell’Anica, mostrando come le presenze nelle sale italiane rilevate nel 2012 B.N. (Before Netflix) e nel 2017 A.N. (After Netflix) siano passate da 91 milioni di spettatori per 608 milioni di incassi totali a 91 milioni di spettatori per 584 milioni di incassi totali. Nessuna soluzione di continuità. Il problema è N… Vabbè, avete capito, bastano pochi passaggi per dimostrare come le polemiche sala/Netflix siano, nel migliore dei casi, altrettante richieste disperate lanciate dagli esercenti allo Stato affinché salvi un settore dal fallimento. A seguito del caso Sulla mia pelle – presentato a Venezia, inizialmente previsto per la distribuzione in sala ma con una finestra di utilizzo esclusivo di Netflix e poi esploso, proiettato ovunque, più o meno legalmente, anche gratuitamente grazie all’Associazione Stefano Cucchi Onlus – gli esercenti hanno alzato barricate, inviato comunicati stampa per ricordare a tutti che il cinema esiste perché esistono le sale e viceversa. Poi è arrivato Roma, il vero spauracchio: un film in b/n di 135 minuti con attori sconosciuti che, improvvisamente, tutti volevano nel proprio cinema pensando che tutti gli spettatori sarebbero andati a cercarlo – immagino gli stessi che erano accorsi a vedere Gravity, film di 90 minuti con due star hollywoodiane. Prima di essere disponibile sulla piattaforma (dal 14 dicembre) il film è uscito in 500 sale sparse per il globo terracqueo.
Dunque, di cosa stiamo parlando? Per un’industria come quella italiana che si basa quasi esclusivamente sul segmento di pubblico “over 50 di sesso femminile”, che non ha mai preso contromisure serie nei confronti dell’abbandono cinematografico (sale vecchie, prezzi sempre più alti, distributori e agenti che fanno il bello e il cattivo tempo) e che non ha certo beneficiato di interventi sul fronte dell’educazione all’immagine (ah, La Buona Scuola!), quanto può essere credibile additare Netflix come competitor scorretto e pericoloso? Forse è lo spirito di un tempo malato, lo stesso che individua nel migrante un ostacolo al benessere dell’italiano medio. O forse è che, a due settimane dall’uscita, sto ancora aspettando che Ovunque proteggimi di Bonifacio Angius, una delle conferme più forti del cinema italiano contemporaneo, esca in Toscana. Il problema è Netflix.