36° Torino Film Festival, 23 novembre – 1 dicembre 2018, Torino
La flor, cinema senza fine
Concepito per il grande schermo, come un film-fiume in sei episodi (4 senza finale), di oltre 800 minuti, La flor è un’opera davvero unica. Tre quarti d’ora di titoli di coda con l’immagine capovolta, ben tre montatori, quattro attrici che, come suggeriscono le note di regia, interpretando ruoli sempre diversi, nelle varie parti del film, finiscono per offrire un ritratto di sé stesse, nel tempo, prismatico e simmetrico. La vita al lavoro. Ma il lavoro, qui, è principalmente quello del set.
Di esplicitamente politico La flor ha ben poco, per quanto possa incuriosire nei ringraziamenti la presenza del Partito rivoluzionario del Nicaragua e del Partito anarco-nichilista magiaro. Piuttosto, il tono può ricordare, in molte scene, quello dei serial del muto o delle fiabe, per la sospensione dell’incredulità che richiede allo spettatore, per il gusto della narrazione, per gli intrighi. Il meccanismo a scatole cinesi, con narratori di grado crescente, fa venire subito in mente Il manoscritto trovato a Saragozza, opera letteraria tra le molte citate per titolo nell’episodio “metacinematografico”, il quarto, in cui le attrici recitano sé stesse, mentre il regista del film a cui stanno lavorando è un collezionista di libri rari.
Gli omaggi alla storia del cinema, anche al western, non si contano. La quinta parte è perfino un remake di Una gita in campagna di Jean Renoir, in gran parte muto, ma con alcuni dei dialoghi originali estratti dalla colonna sonora di quel grande classico. Invece, Pierre-Auguste Renoir e gli altri impressionisti francesi sembrano un’influenza forte a livello iconografico nell’ultimo episodio, tra i più sperimentali: nessun dialogo, solo didascalie da cinema delle origini “storte” o in leggero ritardo (uno degli innumerevoli effetti di straniamento che Llinás utilizza per svelare ironicamente la finzione e giocare con il pubblico), la cinepresa è velata, i contorni sfumati, i corpi diventano macchie di colore, le quattro protagoniste ripropongono l’eterno femminino delle bagnanti (come nel terzo atto del terzo episodio le donne di Manet si sovrappongono all’immagine in movimento della spia 301).
Più volte, tra le scelte linguistiche ricorrenti nel film (molti primi piani, panoramiche a 360 gradi, azioni importanti fuori campo o perse nelle ellissi, tempi morti, montaggio alternato, flashback menzogneri o veritieri, musica di archi da cinema classico, voce over poetica), notiamo soggetti non a fuoco nelle inquadrature, come se il mistero, l’ignoto che costituisce il carburante narrativo de La flor, in particolare nelle derive spionistiche del secondo e terzo episodio, fosse rappresentato, nei molti long take fissi, come un obnubilamento della visione, una miopia percettiva e conoscitiva. Ad eccezione del primo episodio, una sorta di B-movie, in cui la sfocatura va a caratterizzare, in un uso più immediato, la soggettiva di una mummia a cui sono stati cavati gli occhi.
Comunque, La flor è, soprattutto, un grande racconto popolare, pieno di autoironia, di canzonette (il secondo episodio è ambientato proprio nel mondo dell’industria discografica argentina), di sentimenti forti a cui abbandonarsi (l’amore impossibile tra i due killer, forse il momento più memorabile). Il secolo delle spie è già finito, ma il cinema non finisce mai.
La flor [id., Argentina 2018] REGIA Mariano Llinás.
CAST Elisa Carricajo, Valeria Correa, Pilar Gamboa, Laura Paredes, Esteban Lamothe, Pablo Seijo.
SCENEGGIATURA Mariano Llinás. FOTOGRAFIA Augustín Mendilaharzu. MUSICHE Gabriel Chwojnik.
Drammatico/Sperimentale, durata 808 minuti.