ANOTHER BRICK IN THE WALL
Il fronte in casa propria
«Che importa se è tedesco? È un bravo calzolaio!» sono le parole di Kadkin, un padre che ha appena ricevuto la notizia della morte del proprio figlio minore e del grave ferimento del figlio maggiore proprio ad opera di soldati tedeschi. Sta difendendo un prigioniero di guerra a cui ha dato lavoro. Perdono? Cosmopolitismo? Superamento di barriere e categorie politiche e mentali?
Kadkin è un artigiano con folti baffi e un corpo ben solido per la sua età, il suo sguardo è pieno di realismo ed esperienza: forse non c’è niente in lui di alto e ideale – il regista Boris Barnet non fa programmaticamente di un operaio un santo della rivoluzione – forse c’è in lui solamente un pensiero di reciprocità, già accennato quando le immagini lo ritraevano a lavoro per rendere resistenti gli stivali da mandare al fronte. Nel giovane ragazzo tedesco, che mentre è a lavoro canta canzoni della sua terra, vede un figlio, non il suo, ma il figlio di un altro padre che a migliaia di chilometri di distanza è come lui in penosa attesa di notizie: non può fargli del male e non può sopportare che gli si faccia del male, proprio come non vorrebbe che si facesse male ai suoi figli.
Con l’occhio in un villaggio periferico della Russia di Nicola II Boris Barnet guarda alla guerra, alla nozione di confine e di differenza. È la Prima Guerra Mondiale, ma potrebbe essere qualsiasi guerra. Anche quando è in primo piano, infatti, tra le esplosioni del cannone e gli strappi d’aria dei proiettili, del fronte non si fa una cronaca, si guarda piuttosto nella trincea come in uno specchio in cui si riflettono le abitudini e i gesti dei luoghi d’origine. Il parallelismo è continuamente tracciato con un montaggio alternato tra fronte e villaggio, del più puro stampo sovietico, che rende una cosa unica il suono della mitragliatrice e quello delle macchine nell’industria di calzature e rende parimenti i possenti proclami patriottici con gli sbuffi del treno carico di giovani militari.
«Noi non vogliamo combattere, loro non vogliono combattere, eppure è il quarto anno che combattiamo»: i soldati si chiedono il senso della guerra con una semplicità logica disarmante e non ci sarebbe altro da dire per affermare la disumanità della guerra: il resto è imposizione, ideologia, potere. Il rappresentante del nuovo governo, acquisito il comando alla caduta dello Zar, pronuncia discorsi pieni di retorica mentre ha già pronti i contratti per cui gli industriali, impersonati da un uomo grassoccio e malizioso, si sfregano le mani: ecco il vero senso della guerra! Ma se questo è un potere fallace, destinato a mutare forma di continuo, Barnet sembra individuare l’unico vero potere nell’amore, che sia paterno, fraterno, filiale, di un amico o di una donna. La sequenza di Man’ka che prima corteggia e poi di nascosto accoglie in casa l’osteggiato prigioniero tedesco, la loro ricerca di un linguaggio con cui comunicare, tra il gestuale e l’idiomatico, è quella che più resta di un film libero e totalizzante, che dichiara innata negli uomini la tensione a purificarsi da ogni separazione imposta.
Sobborghi [Okraina, URSS 1933] REGIA Boris Barnet.
CAST Sergei Komarov, Yelena Kuzmina, Aleksandr Chistyakov, Nikolaj Bogolyubov, Nikolaj Kryuchkov.
SCENEGGIATURA Konstantin Finn, Boris Barnet. FOTOGRAFIA Michail Kirillov, A. Spiridonov. MUSICHE Sergei Vasilenko.
Drammatico, durata 94 minuti.