ANOTHER BRICK IN THE WALL
Thick as a Brick (in the Wall)
Nel 2019 saranno 30 gli anni che ci separano dalla caduta del muro di Berlino, dalla fine dell’impero sovietico e della guerra fredda. Negli Stati Uniti, il presidente Donald Trump ha deciso invece di fondare la sua politica sulla costruzione di un muro di cemento alla frontiera con il Messico. È un modo ironico di “celebrare” l’anniversario ma è solo una delle provocazioni tramutate in goffi atti politici dall’improbabile leader degli USA.
Il cinema, inteso come showbusiness e come insieme di film, ha affrontato in prima persona la battaglia per impedire a un candidato razzista, sessista e non troppo intelligente di diventare presidente, basti pensare alle sfilate, alle dichiarazioni e alle prese di posizione pubbliche di registi e attori durante la campagna elettorale. Battaglia persa che però ha lasciato un’eredità interessante: il cinema americano è tornato a occuparsi di nuovo di classe operaia e di quei ceti che hanno votato per Trump mettendo di fronte ai Democratici di Hillary Clinton l’evidenza di uno scollamento da una parte consistente del paese.
Per esempio è interessante la riscoperta di una città come Detroit e di uno stato come il Michigan che fino a qualche lustro fa erano il cuore pulsante dell’industria americana e che ora sono uno dei più grandi bacini di povertà e disagio socio-culturale d’America: se un film come Detroit di Kathryn Bigelow torna indietro alle proteste civili degli anni Sessanta e ad un clima di terrore razziale che la comunità afro-americana vive sulla propria pelle ancora oggi, un videogioco come Detroit: Become Human va verso il futuro per raccontare i destini di tre androidi e mettere in scena riflessioni su identità e libero arbitrio in un contesto sociale pieno di rimandi al presente, in cui i protagonisti sono un nero, un poliziotto e una donna, tre figure cardini del presente a stelle e strisce. A chiudere il cerchio, raccontando il presente ci pensa Michael Moore – nativo del Michigan – che alla battaglia anti-Trump ha dedicato tempo e due film: Michael Moore in Trumpland – la registrazione di un monologo teatrale dello stesso Moore in cui in cercava di spiegare il perché i repubblicani votassero l’ex-magnate della finanza in uno dei distretti baluardo di Trump – e Fahrenheit 11/9, che parte dall’elezione di Trump per raccontare come gli Stati Uniti si stiano pian piano distruggendo a causa del presidente.
L’elemento più acuto di quest’ultimo film, che è anche il lascito più notevole del cinema nell’era di Trump, è l’attenzione sulle persone, su quell’insieme chiamato White Trash che di solito viene deriso e immaginato come ricettacolo di tutti gli orrori socio-culturali d’America (si confrontino per esempio le letture al fenomeno di due grandi horror come Non aprite quella porta di Tobe Hooper e La casa del diavolo di Rob Zombie) e che invece è divenuto un mondo a cui interessarsi, da raccontare e da comprendere per capire meglio le esigenze del cosiddetto “paese reale”, come il leader della protesta a-sindacale dei fazzoletti rossi.
Per esempio, il nuovo film di Steven Soderbergh, La truffa dei Logan, è la versione country’n’beer della trilogia Ocean’s: sempre un furto in grande stile, al deposito contanti della NASCAR, l’ambientazione però non è la scintillante Las Vegas ma il polveroso entroterra americano fatto di cittadine incastonate in valli rocciose e deserti, la musica non è il funky attraente di Lalo Schifrin ma il country e le ballate nostalgiche di John Denver, i ladri non sono dei divi eleganti, furbi, ricchi o apparenti tali, non sono degli affascinanti furbastri del gioco d’azzardo, ma sono dei poveracci, operai licenziati o in proprio dopo un incidente, non troppo intelligenti o scaltri, ma determinati a cambiare la propria vita in un modo un po’ più fruttuoso di una scommessa alle corse o al football. Logan Lucky è un film a suo modo politico, proprio nello sguardo con cui Soderbergh racconta i suoi protagonisti, la loro classe sociale e la loro provenienza culturale, ovvero senza sarcasmo né paternalistica compassione, con un’ironia che non viene dall’alto ma che è paritaria, in cui la cura con cui il regista elabora i dettagli di ambientazione scenica, visiva e musicale, è una presa di posizione nei confronti di una realtà finora sbeffeggiata.
Non è un caso infatti che il grande successo della tv generalista americana in questa stagione sia stato il revival di Pappa e ciccia, situation comedy degli anni Novanta ambientata in una famiglia di operai di provincia piuttosto rozzi e volgari. Non è un caso soprattutto perché la sua attrice e autrice principale Roseanne Barr è una dichiarata e fervente sostenitrice di Trump e come il suo idolo politico si lascia andare a tweet razzisti che ne hanno causato il licenziamento. Pappa e ciccia si pone al capo opposto di quasi tutta la produzione televisiva e cinematografica uscita da Hollywood e in particolar modo di Will & Grace, altra sit-com tornata dagli anni Novanta e che della “crociata” anti-Trump ha fatto una bandiera. Il loro humour è però una predica ai convertiti poco efficace e la conferma di una mancanza di interlocuzione con certe fasce sociali che preferiscono identificarsi e specchiarsi con Tonya Harding, la protagonista di Tonya, il film di Craig Gillespie sulla vera e incredibile storia di una pattinatrice artistica figlia di quella classe operaia relegata fuori dall’eleganza della disciplina.
Se Trump ha deciso di costruire muri fisici e simbolici, il cinema USA ha deciso di eliminare gli steccati snobisti e di tornare a parlare, se non proprio di classi operaie, di gente che né l’industria culturale né tantomeno le classi politiche aveva rappresentato con dignità, prima di oggi, prima di Trump e prima del cinema che vuole sconfiggerlo.