62° BFI London Film Festival, 10-21 ottobre 2018, Londra
Pur frequentando il London Film Festival da otto anni, non mi ero mai data regole sulla scelta dei film da guardare – una cosa che con il senno di poi sarebbe stata utile, visto che è da un lustro che la selezione sfonda i 200 lungometraggi. Per la 62ma edizione, tenutasi dal 10 al 21 ottobre, mi sono data un obiettivo semplice: vedere quanti più film possibili diretti da donne – di qualsiasi paese, genere e spessore.
L’idea è nata dalla pompa magna con cui, alla presentazione del festival, era stato annunciato che il 38% delle pellicole selezionate per l’edizione erano dirette da registe. In particolare, per i film di fiction la percentuale è arrivata 30% – un aumento del 24% rispetto all’anno precedente. In tre dei quattro concorsi del festival, il 50% dei film in concorso era diretto da una donna.
Quello di Londra non è un festival di enorme prestigio, ma il contrasto con altre realtà europee è aggressivamente visibile. Al London Film Festival, cinque film su dieci in lizza nel concorso principale (Best Film, poi vinto da Joy dell’austriaca Sudabeh Mortezai) erano diretti da donne.
Solo un paio di mesi fa, a Venezia c’era in competizione un’unica regista (su ben 21), Jennifer Kent con The Nightingale. Kent si è peraltro poi trovata coinvolta nel momento più basso del festival – l’indimenticabile “vergogna puttana, fai schifo!”. Quest’anno Cannes (dopo i tacchi sul red carpet) ha fatto sforzi per migliorare la sua reputazione nell’industria cinematografica post #MeToo, facendosi promotore di un equality charter (una costituzione per l’uguaglianza) per la selezione del programma, ma senza quote. C’è da ricordare che questa novità riguarda un festival che finora ha premiato solo due donne come miglior regista – Yuliya Solntseva nel 1961 e Sofia Coppola nel 2017 – e ha assegnato la Palma d’oro solo a Jane Campion nel 1993.
Le iniziative dall’altro lato dell’Atlantico sono diverse – da 50/50 by 2020, l’iniziativa legata a Time’s Up, a proposte più informali, come quella notissima dell’inclusion rider da parte di Frances McDormand.
A Londra abbondano le iniziative e festival dedicati alle donne e al femminismo nel cinema – ad esempio Birds’ Eye View, Underwire Festival, London Feminist Film Festival. Quello che mi interessava, però, era seguire le donne fuori da ambienti dedicati a loro e in un mondo senza le tanto odiate, ma tanto necessarie, quote. Come c’era da aspettarsi, se la sono cavata benissimo. Dei 35 film che ho visto, 19 erano diretti da registe, il 54% delle mie visioni festivaliere. Sono rimasta colpita da come, nonostante le mie scelte fossero pesantemente sbilanciate verso i film anglofoni, sono riuscita a vedere un film di una regista per ogni continente. I film coprono anche un’ampia curva di generi e budget – da un documentario australiano, a un film arthouse cileno, ai blockbusteroni statunitensi.
Stilare una classifica dei miei film preferiti è stata durissima, vista la qualità generale di quello che ho visto. Senza ordine particolare, sono rimasta incantata da Rafiki di Wanuri Kahiu, una storia già vista ma presentata con una dolcezza tale che era impossibile smettere di sorridere. Nel settore “dolcissimi” cade anche Little Forest di Yim Soon-rye, un raro soffio d’aria fresca nel panorama di thriller trucidissimi coreani che approdano in Europa. Uno scenario più tetro, ma del tutto originale, è quello di Crystal Swan di Daria Zhuk, ambientato nella Bielorussia degli anni ‘90, in cui una ragazza vuole diventare una DJ. Nel mondo anglofono, sono particolarmente apprezzabili lo struggente romantic drama britannico Only You; il documentario australiano I Used to Be Normal: A Boyband Fangirl Story, un raro esempio di lavoro rispettoso e non condiscendente sul fandom; la nuova sfida in un ruolo drammatico di Melissa McCarthy, Can You Ever Forgive Me?; e uno dei film più indescrivibili di sempre, il mix di arte e viaggio nella malattia mentale Madeline’s Madeline.
Il fatto che i organizzatori del London Film Festival abbiano un gruppo nutrito e variegato di film girati da registe, pur in un ambiente risaputamente ostile alle donne, mi fa pensare due cose. La prima è che ci sono donne, in giro per il mondo, che si fanno veramente in quattro per realizzare i loro progetti. La seconda è che, nonostante quello che dicono i programmatori di altri festival, i bei film di registe ci sono eccome, serve solo metterli in programma.
Per ottenere un discreto risultato, il mio esperimento ha contato in parti uguali su due elementi: un’alta presenza di film girati da donne, e uno sforzo personale nella selezione delle proiezioni. Tolto il secondo elemento (l’intenzionalità) si vede subito come la situazione peggiori drasticamente: durante il festival del 2017 i film diretti da donne che avevo visto erano 13 su 51, un misero 25%. Durante questo festival, molti giornalisti con cui chiacchieravo non avevano considerato minimamente il problema, e spesso per loro ammissione non avevano visto nemmeno un film con una regista, o al massimo solo Destroyer di Karyn Kusama – e questi sono i professionisti, non il pubblico. Alcuni di loro avevano visto oltre 70 film, tutti con uomini al timone.
Sicuramente ci saranno spiegazioni più complicate per questo, ma la più ovvia per me è quella della visibilità. Perché tanti critici e persone dell’industry andavano a vedere un certo film? Perché era il nuovo dei Coen, di Yorgos Lanthimos, di Steve McQueen, eccetera.
Nonostante le molte iniziative che si sono messe in moto e il fatto che la nostra cultura stia lentamente cambiando, il posto per le donne nel cinema – specialmente dietro le quinte – è ancora limitatissimo. Considerati i numeri esecrabili di donne che nel cinema anglofono vengono considerate “top directors” e fanno grossi numeri al box office, è essenziale aumentare la visibilità di altre che meritano di esserlo. Per quanto le quote vengano viste come il peggior male del mondo, è chiaro che mettere in programma film di registe aiuterà a far finalmente crescere il numero di donne nel cinema che amiamo e rispettiamo collettivamente – e non solo la solita manciata di pioniere.