SOUNDS GOOD
Tra immagini e musica
“And here’s to you Mrs. Robinson”, basta solo ascoltare l’inizio della canzone di Simon & Garfunkel, che fa parte della colonna sonora di Il laureato (Mike Nichols), per essere catapultati nelle stanche giornate di Benjamin (Dustin Hoffman), passate tra il letto e la piscina, immobilizzato dall’incertezza del futuro e risvegliato dalla passione per la Signora Robinson della canzone che ha fatto epoca.
Questo è solo un esempio di quanto sia stretto il legame tra l’immagine e la musica, tra ciò che si guarda e ciò che si ascolta. Il rapporto tra il film di Nichols e la sua colonna sonora è emblematico, dimostra quanto la musica sia “espressiva” delle emozioni dei personaggi, tanto la grande depressione che colpisce Benjamin quanto la tensione erotica tra lui e l’amante, più matura di lui, sia rappresentazione su pentagramma dello smarrimento di un’intera nazione, abitata dalla duplice sensazione di voglia e di terrore per il domani. La voce di Simon & Garfunkel sostanzia e dà senso a ciò che accade sullo schermo; passando da Mrs. Robinson a The Sound of Silence, le note attribuiscono un significato ben preciso alle relazioni tra Benjamin e il mondo che lo circonda; il film “silenziato”, o senza quella colonna sonora, non avrebbe la stessa forza emotiva e “politica”, in senso lato.
Insomma ci sono musiche che hanno avuto successo e sono state scritte a lettere cubitali nell’immaginario di ogni spettatore e non solo, canzoni che provengono dal mondo pop, dal rock, come brani di musica classica, che hanno dato significato, e continuano a farlo, a molto cinema; ci sono pellicole che sono state risollevate proprio grazie ad esse. È evidente che i film di Tarantino senza la musica di Morricone, padre di alcune delle colonne sonore più interessanti della storia (Il buono, il brutto, il cattivo, Mission e Nuovo Cinema Paradiso), non sarebbero tali, o comunque non ci sarebbe stato quel mix perfetto, simbiosi straniante tra immagini e musica − in The Hateful Eight, ad esempio, c’è la stessa freddezza, lo stesso crescendo di violenza sia in Tarantino che in Morricone. Sin dalle origini le note musicali hanno svolto un ruolo fondamentale nella settima arte, hanno amplificato i sentimenti: paura, gioia, tristezza, disperazione, dolore, arrivano ancor più chiari se di sottofondo c’è una musica che li esprime. Se di fronte alla scena di una morte, di un tradimento, di un matrimonio celebrato, lo spettatore si sente partecipe di quanto scorre davanti ai suoi occhi, ciò vale anche, come sostengono i filosofi della musica, per le note che ascoltiamo che possono suscitare un’emozione, altrettanto vera e reale. Il Tema di Lara del film Il dottor Zivago − che fa parte della colonna sonora di Maurice Jarre − aggiunge al dramma dei personaggi, interpretati da Omar Sharif e Julie Christie, uno struggimento che, di certo, era già insito nel romanzo di Boris Pasternak, ma che viene amplificato e ingigantito. Il tono, trascinato e disperato, con cui prende forma il desiderio di poter trovare un luogo dove vivere finalmente l’amore è funzionale al carico emotivo, parole e musica rimangono nell’immaginario collettivo e acquistano valore anche in relazione al mondo diegetico. Ogni brano musicale viene ascoltato dallo spettatore come un enunciato umano, è normale dunque che lo spettatore si leghi in maniera empatica ad esso: come non pensare alla celebre My Heart Will Go On e al timbro da usignolo di Céline Dion quando sentiamo di nuovo la tragica storia di Jack e Rose, come non sentire risuonare quelle parole mentre si va con la memoria alle disperate ore in cui i due innamorati del Titanic (James Cameron) tentano di salvarsi. Le note si ergono potenti e vigorose; anche nei film meno riusciti, anche in quelli che fanno acqua da tutte le parti, la musica è in grado di creare empatia e simpatia, costruisce in maniera illogica e logica insieme ciò che già l’immagine cinematografica ha reso reale – accade a volte che le musiche siano di grande successo, entrino nelle top ten mentre la pellicola a cui appartengono non riscuote lo stesso gradimento di pubblico o critica.
È proprio il musical − si pensi ad Hair con la sua Aquarius, a Grease, a Dirty Dancing con Time of my Life −, il genere in cui la colonna sonora diventa fulcro e motore d’azione. Parole, gesti, azioni e canzoni si fondono per costruire un’entità che respira in ogni suo “arto”. Così, in pellicole come The Blues Brothers (John Landis), lo spettatore, proprio grazie a Sweet Home Chicago, Everybody Needs Somebody to Love, Think, per citarne alcune, vive la missione dei personaggi. Fa differenza che siano state scelte proprio queste canzoni e non altre perché si partecipa a quel blues che sporca, scuote e stropiccia, che ha reso celebre The Blues Brothers facendolo entrare a pieno titolo tra i musical che hanno fatto storia. La stessa cosa vale per Moulin Rouge!, film di Baz Luhrmann, che dà, come solo lui sa fare, una svolta al musical; i brani, apparentemente lontani gli uni dagli altri, sono capaci di creare l’atmosfera, eccitante e anche struggente, di un teatro. Il regista porta sul grande schermo un lavoro di contaminazione che riesce a rimaneggiare una classica opera pucciniana facendola diventare un’esplosiva e implosiva opera pop-rock. La meravigliosa cortigiana Satine intona l’inno di Marilyn Diamonds Are A Girl’s Best Friend, mescolandolo al Material Girl come una Madonna d’annata – Madonna che ha interpretato Evita nell’omonimo film di Alan Parker −, e si strugge in El tango de Roxanne, e ancora il Christian di Ewan McGregor canta una piena Your Song mentre sogna la donna misteriosa che ha incontrato. La musica dunque non è un “essere” vago, astratto, distante e distaccato dal film ma è parte integrante di esso e sono legati l’una all’altro con un doppio spago, capace di creare spettacoli paradisiaci come stridenti e dissonanti elementi di un corpo unico.