BLACK AMERICA
La checklist di un immigrato
Un film può essere molte cose insieme, può accennare e suggerire senza portare a compimento e senza disegnare tutti i contorni dei personaggi. Ma affinché un discorso qualunque sia un discorso coeso c’è bisogno di riferimenti fissi.
In Fratello di un altro pianeta di fisso c’è solo lo spazio e il tempo: New York, anzi forse è meglio dire Harlem e tutto ciò che c’è oltre 110th street – la strada che tradizionalmente divide quartieri bianchi e neri – e i primi anni Ottanta. Siamo ai tempi di Reagan, un periodo pieno di diffidenza, di disgregazione sociale, di contrapposizioni mascherate, taciute e anche sottostimate. John Sayles entro questi limiti costruisce, più che una trama, una lunga lista whitmaniana di luoghi comuni, di sensazioni, di spunti comici, che soffre la durata perché manca di direzione. Il mistero che tiene vivo il tutto – chi è il protagonista e da dove viene – resta irrisolto e si ha fino alla fine il dubbio che sia una noncuranza più che una scelta di stile. L’apertura del film è affidata ad una sequenza che interseca le tecniche del muto e del videoclip, molto ben calibrata e suggestiva. Un essere alieno, in forma di uomo tranne per i piedi con solo tre alluci artigliati, atterra con la sua navicella sulle coste di Ellis Island; attraverso le sue mani ha sia il potere di guarire e aggiustare dispositivi elettronici, sia quello di ascoltare le voci delle persone che hanno toccato gli stessi oggetti. Entra nel dismesso centro di accoglienza – il Museo dell’immigrazione sarà realizzato solo sei anni più tardi – e qui viene tormentato dai lamenti e dalle voci impaurite, ciascuna nel suo personalissimo idioma, dei milioni di immigrati che passarono di lì. Anche lui, fondamentalmente, non è che un immigrato, la città che scopre pian piano davanti a sé sembra abbandonata, vuota anche quando è circondato da centinaia di persone indaffarate e indifferenti. Solo in un bar trova considerazione e conforto: uomini con il suo stesso colore della pelle lo chiamano fratello. Da qui in poi la trama si moltiplica seguendo il suo peregrinare alla ricerca di un senso, di un’identità: scopre il denaro, il sesso, la droga, la morte, la vita notturna, il lavoro, il furto, l’ossessione, il fallimento, la persecuzione razziale impersonata dalla polizia e da due loschi figuri che lo inseguono ovunque col loro verso felino: forse creature da altri mondi o forse proiezioni simboliche. Il protagonista non ha nome ed è muto, in lui l’alienazione è una condizione d’esistenza, come un qualsiasi immigrato che ricomincia la sua vita non ha né una storia né un linguaggio adatto. I due uomini-felini di carnagione bianca lo inseguono sempre ad una velocità inferiore di quella con cui lui scappa: la sua condizione di straniero è irreparabile e necessaria, sarà sempre raggiunto dalla società che ha bisogno di lui perché il padrone ha bisogno di uno schiavo, il dominatore ha bisogno di un sottomesso e il ricco ha bisogno del povero. Per spiegare la sua identità a un bambino in un museo indica una stampa d’epoca con uno schiavo fuggitivo dai campi e due cani che stanno per raggiungerlo: i segugi infernali cantati da Robert Johnson in Hellhound On My Trail ancora sono affamati.
Fratello di un altro pianeta [The Brother from Another Planet, USA 1984] REGIA John Sayles.
CAST Joe Morton, Dee Dee Bridgewater, Steve James, Leonard Jackson, Caroline Aaron.
SCENEGGIATURA John Sayles. FOTOGRAFIA Ernest R.Dickerson. MUSICHE Mason Daring.
Fantascienza, durata 104 minuti.