37° Premio Sergio Amidei, 12 – 18 luglio, Gorizia
Una storia di carne e di pixel
È il 1989 e Sadie Benning lascia la scuola e decide di chiudersi nella sua stanza. Lì dentro ha tutto quello che le serve: sedici anni, i suoi dischi, la tv e una telecamera giocattolo Fisher Price PXL-2000, che permette di registrare brevi filmati su un’audiocassetta.
Con quella gira un video di cinque minuti chiamato Living Inside (1989), in cui racconta cosa significa scoprirsi lesbiche nella Milwaukee operaia e conformista di fine millennio. Il primo era stato A New Year (1989): quattro minuti a cuore aperto nascosta dietro una palla di vetro con la neve finta, i suoi pensieri impressi sopra dei pezzi di carta fluttuanti davanti allo schermo. Da lì Benning ha continuato a girare, a dare una forma pezzo per pezzo alla sua adolescenza, quella di una ragazzina ai margini che decide di raccontare la sua sessualità nell’unico posto in cui si sente al sicuro: la sua cameretta con le tapparelle abbassate. Con If Every Girl Had a Diary (1990) le confessioni fuori campo si legano a primi piani claustrofobici: l’obiettivo diventa un’estensione del corpo, offerto con una prossimità spiazzante, quasi sensuale. Il video si fa carne, acquista qualità tattili, materiche, dà vita ad una fisicità inedita che ingloba lo spettatore. Il rumore della telecamera in funzione, la voce calda fuori campo, la grana spessa dei pixel, la sua bocca impiastricciata di rossetto, danno l’illusione di condividere la stessa intimità, di guardare insieme dallo stesso buco della serratura. Sadie Benning vuole comunicare, vuole connettersi con chi la guarda. Come per l’odierno popolo di youtuber, l’isolamento è la condizione necessaria dell’estrema diffusione di un messaggio in bottiglia. Come i diari delle teenager, i suoi video fagocitano tutto, sfidando la specificità del mezzo: in A Place Called Lovely (1991) filmati della sua infanzia, illustrazioni scientifiche di anatomie perfette, disegni, animazioni, titoli di giornale, si intrecciano in cortocircuiti ironici che esorcizzano la solitudine. La colonna sonora, strutturale come un battito cardiaco, rivela uno spazio di spontaneità calibrata, editato nei dettagli. Vecchi giocattoli si inseriscono nel racconto per visualizzare quello che non basta dire; emergono da profondità sgranate come goffi effetti speciali. Inserti chiassosi tratti da programmi televisivi spazzano via tutto, entrano in scena a singhiozzo con la stessa violenza con cui i modelli sociali imposti schiantano la personalità di una donna in costruzione. Per difendersi Benning impersona ruoli: maschili, femminili, indefiniti. Rivendica un’identità fluida, instabile; con It Wasn’t Love (1992) entra ed esce dagli stereotipi della Hollywood anni Cinquanta, sfoga tutta la voglia di esistere di una persona che si cerca sui media ma non si trova, allora decide di rappresentarsi da sola. Benvenuti nel New Queer Cinema, quello in cui solitudine e alienazione vanno a braccetto con la carica sovversiva dell’ambiguità di genere. Ormai ragazzina prodigio, inizia a rivolgere la telecamera fuori dalla propria stanza, ad allargare lo sguardo anche a ciò che la circonda, per finire con Flat Is Beautiful (1998), il film più lungo che abbia mai girato: qui lascia la scena a Taylor, undicenne androgina cresciuta da una madre single in un mondo in bianco e nero, e l’emotività dei personaggi è affidata a delle maschere di carta. Gli esterni sono girati in Super8, ma per gli interni Benning continua a usare la Pixelvision, convertendone ancora una volta i limiti in sorprendenti possibilità espressive.
Sadie Benning Videoworks: Volume 1 [id., USA 1998] Regia e sceneggiatura: Sadie Benning.
Sperimentale, durata 35 minuti.
Sadie Benning Videoworks: Volume 2 [id., USA 1999] Regia e sceneggiatura: Sadie Benning.
Sperimentale, durata 49 minuti.
Sadie Benning Videoworks: Volume 3 [id., USA 1999] Regia e sceneggiatura: Sadie Benning.
Sperimentale, durata 70 minuti.