Dimenticare per poi ritrovarsi
Guglielmo: «Non ho mai avuto occasione di visitare la Germania: vuoi raccontarmi un po’ come accolgono gli ospiti laggiù?» Bertolfo: «[…] ti dirò ciò che ho visto io. Per cominciare, nessuno ti saluta quando arrivi perché non vogliono far credere di circuire il cliente, cosa questa che è ritenuta vile, spregevole e indegna della serietà tedesca. Dopo che ti sei ben sgolato a chiamare, ecco che finalmente qualcuno sporge la testa […] come una testuggine che cacci fuori il capo».
Questo scambio di battute tratto da Locande, uno dei Colloqui di Erasmo da Rotterdam, potrebbe essere una battuta di Júlia ist, pronunciata da Julia al ritorno dal suo Erasmus a Berlino. Originaria di Barcellona e studentessa di Architettura, passa isolata le prime settimane nella capitale tedesca, è spaesata, si sente respinta e delusa da un ambiente freddo, apparentemente ostile e al di sotto delle sue aspettative. Solo dopo aver incontrato altri futuri architetti inizia con loro una collaborazione che le porterà anche amicizia, sesso e affetti. Con essi la nostalgia di casa e la sensazione di trovarsi fuori posto svaniscono pian piano: il suo sorriso da espressione formale e di “presenza” diventa gesto di benessere e di scoperta. Ma la bellezza è nemica del tempo e in ogni esperienza di Julia si nasconde un’incrinatura, ad agosto dovrà tornare in Spagna e ricominciare da quel che ora crede di aver lasciato; così ogni suo gesto non ha futuro né passato e in un presente privo di risposte e di domande, di spiegazioni e di responsabilità vive gli ultimi scampoli di Erasmus come se ogni giorno fosse un’altra. Il suo bagaglio di esperienze si tramuta in un sacco bucato dove tutto passa e niente resta, come le case innovative da lei progettate, spazi aperti, strutture mobili, ambienti perennemente cangianti, dove abita la comunità più che il singolo, più il rumore disordinato che il silenzio della stasi e della chiarezza.
Il film è scritto, diretto e interpretato da una esordiente, ma che tocco, che densità, che forza visiva! Ha la freschezza dei primi frutti, la suggestione del primo “mettere le mani” nel mezzo filmico tastandone le capacità, le difficoltà e alfine innamorandosi dei propri risultati; attraverso l’Erasmus Elena Martin ha voluto mostrare lo stacco netto tra vivere secondo le proprie origini e farlo solo secondo la propria indole. Erasmo da Rotterdam, la figura a cui il progetto europeo si ispira, era apolide; nato in Olanda ma sempre libero da vincoli, odiò ogni fanatismo e ogni estremismo, convinto che nulla potesse separare gli uomini uniti dalla cultura e dalla ricerca. La lingua che gli permise di unirsi con altre menti europee fu il latino, ma oggi? Più che una lingua parlata il film sembra candidare a linguaggio universale quello del corpo e quello delle abitudini: un atteggiamento più che una pratica, proprio quel non creare legami erasmiano che però oggi più che a concentrarsi su di sé sembra indurre a fuggire da sé. Più che una cittadinanza comune e sovranazionale, il finale cinicamente sembra svelare un popolo di esuli, costretti ad un luogo, nostalgici. Dal titolo sappiamo che Julia ist, Julia è, esiste, ma solo in un’altra lingua, non la sua, non quella in cui vivrà d’ora in poi, e solo al presente, un presente che è passato.
Júlia ist [id., Spagna, 2017] REGIA Elena Martin.
CAST Elena Martin, Oriol Puig, Laura Weissmahr, Jakob D’Aprile, Carla Linares, Remi Pradere.
SCENEGGIATURA Maria Castellví, Elena Martín, Marta Cruanas, Pol Rebaque. FOTOGRAFIA Pol Rebaque. MUSICHE Max Grosse Majench, Jonathan Hamann, Adria Serarols.
Drammatico, durata 92 minuti.