Semplicità apparente
Ne La stanza delle meraviglie di Todd Haynes, tratto dall’omonimo romanzo illustrato di Brian Selznick, è come se convivessero due film diversi in grado però di mischiarsi fino a confondersi e a formare un unicum compatto; non solo per le due vicende che compongono la duplice struttura narrativa, quella a colori ambientata nel 1977 con il piccolo Ben protagonista, e quella in bianco e nero ambientata nel 1927 con protagonista la piccola Rose, entrambi sordi ed entrambi alla ricerca di un affetto perduto.
Questi due film, queste due rette fintamente parallele, vedono da un lato la scorrevolezza, la robustezza e la ricerca dell’impatto emotivo e del coinvolgimento immediato e senza difese tipiche di un prodotto hollywoodiano, mentre dall’altro c’è una struttura sfuggente, nei dettagli più evocativa che davvero narrativa, ricca di rimandi e collegamenti e a tratti quasi sperimentale. Un film fondamentalmente costruito su una complessità narrativa e stilistica che in qualche modo viene nascosta e negata dalla semplicità con cui si approccia allo spettatore e con cui riesce ad emozionarlo.
È anche un’opera per la quale è esercizio vacuo trovare chissà quale chiave di lettura sociale come nel caso di Lontano dal paradiso e Carol, melodrammi ambientati nel passato che toccavano corde dolenti del presente o certi rimossi della nazione. La stanza delle meraviglie è un film “banalmente” (tra mille virgolette) intimo e anche da questo punto di vista limpidissimo nel trasmettere il suo senso. Parte dall’infanzia inquieta e dalla sofferta rielaborazione di un’assenza per raccontare il potere della meraviglia e dello stupore. Riecheggiano Spielberg, il suo umanesimo e la poetica della meraviglia – per esempio nelle visioni incontrate da Ben nel museo o nello stupore di Rose davanti alla New York fremente dell’età del jazz –, ma ancor più intensamente Haynes vuole sottolineare la necessarietà quasi terapeutica, talvolta spiazzante e sconvolgente ma sempre decisiva e spesso salvifica, della bellezza e la sua capacità di creare una rielaborazione della realtà e una nuova consapevolezza. È quindi un film, volendo, sul senso dell’arte in generale – non è un caso che l’istituzione museo sia decisiva – e del cinema in particolare, come conferma la parte dedicata a Rose nella quale viene ricalcato il cinema muto. Haynes cerca di trasmettere allo spettatore la stessa meraviglia che stordisce i protagonisti, in particolare con sequenze più che esplicite nell’inseguire la bellezza e lo stupore di cui il film vuole essere promotore (su tutte l’inserto in animazione e la rivelazione finale che avviene splendidamente sulla New York in miniatura), riuscendoci e conquistando con un film allo stesso tempo complesso e semplice, “banalmente” affascinante e “banalmente” emozionante.
La stanza delle meraviglie [Wonderstruck, USA 2018] REGIA Todd Haynes.
CAST Oakes Fegley, Millicent Simmonds, Jaden Michael, Jiulianne Moore, Michelle Williams.
SCENEGGIATURA Brian Selznick (dal suo omonimo romanzo illustrato). FOTOGRAFIA Edward Lachman. MUSICHE Carter Burwell.
Fantastico/drammatico, durata 116 minuti.