L’ignoranza è davvero beata?
Lazzaro felice comincia come un documentario sul folklore italiano, riprese sgranate su un’epoca imprecisata mostrano un suonatore di zampogne in ritardo che si è fermato tra alcune case di campagna, forse per guardare la luna. Più avanti lo aspettano per “attaccare” una serenata alcune voci grosse e ineducate. La ragazza a cui è rivolta è restia a mostrarsi, ma infine dopo gli scherzi delle altre ragazze, viene avvitata la lampadina e la luce elettrica disegna il suo profilo alla finestra.
Quando i suonatori sono invitati ad entrare il volto di Lazzaro spicca tra gli altri; imbracciata la zampogna le sue note sono sicure, frutto di istinto e ripetizione, suoni esenti da dubbi e creazioni in linea col suo sguardo chiaro che non cerca sorprese. Proprio il suo sguardo che non fa mai domande, per il quale un’erba è un’erba, un fosso è un fosso, un padrone è un padrone, che non sa andare oltre perché non sa che un oltre esiste, è la pietra angolare che sostiene l’architettura di un film originale ma non originalissimo, troppo carico per essere maturo, ma allo stesso tempo troppo maturo per essere sorprendente.
La Rohwacher ricalca i temi di Le meraviglie, un nucleo di persone non allineate, fuori dal tempo, dalla cultura ufficiale e dalla legge, lì la famiglia di apicoltori lo era per scelta e convenienza, ora i braccianti dell’Inviolata lo sono per forza, tenuti in ostaggio dalla spietata Marchesa De Luna, una produttrice di tabacco che per sopravvivere alla concorrenza li trattiene sui campi, in piena schiavitù, assicurandosi del fatto che non abbiano contatti col mondo esterno, che nel frattempo è andato avanti: la mezzadria è stata abolita, i braccianti hanno contratti, diritti, stipendi minimi. Un’abile scelta registica non rivela neppure allo spettatore che ci troviamo negli anni Novanta, i primi indizi arrivano col figlio della marchesa che ha con sé un walkman e un telefono cellulare. Il reato ha quasi le premesse di un esperimento sociale: la marchesa in un dialogo con il figlio afferma che un individuo non cosciente della propria situazione non desidera altro e agisce solo attraverso l’idea di sfruttamento, lei sfrutta l’Inviolata, gli abitanti dell’Inviolata, che lei crede felici e beati della loro ignoranza, sfruttano Lazzaro, che non dice mai di no a qualsiasi richiesta.
Ma Lazzaro chi sfrutta? Il figlio della marchesa scopre che i conti non tornano e che Lazzaro non sfrutta nessuno e non si pone al di sopra di niente. Lazzaro è l’essere puro, incorrotto, inviolato, il buono delle favole, non conosce il sospetto e l’inganno e, in quanto sciolto da ogni nozione di consumo e di necessità, di disfacimento e di conservazione, è immune al tempo, non invecchia, non cambia, ma neppure cresce, non maturando mai. Il film funziona finché l’illusione tiene, quando “il grande inganno” viene denunciato gli abitanti si trasferiscono in città, senza mai trovare un luogo adatto a loro che non sia marginale, criminoso, nascosto. L’idea di cinema della Rohwacher cammina, così, insieme ai suoi personaggi: personalissima e irriducibile a categorie, sempre più simile alla sua Marta di Corpo Celeste, in cerca di qualcosa in cui credere e di rivelazioni. Un cinema evocativo e, perché no, spiritualmente politico.
Lazzaro felice [id., Italia/Svizzera/Francia/Germania 2018] REGIA Alice Rohrwacher.
CAST Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Nicoletta Braschi, Luca Chikovani.
SCENEGGIATURA Alice Rohrwacher. FOTOGRAFIA Helene Louvart.
Drammatico, durata 130 minuti.