9° Middle East Now, 10 − 15 aprile, Firenze
Piccole patrie dello sguardo
Nonostante l’intero globo terracqueo stia attraversando una fase di conflitto diffusa, nei luoghi storicamente teatro di scontri per il predominio politico ed economico ma anche là dove si pensava che la guerra fosse ormai diventata materia esclusiva dei libri di storia, in questo momento il termometro del nostro tempo è il Medio Oriente.
Va da sé che un festival come il fiorentino Middle East Now, arrivato alla nona edizione, sia uno dei pochi in grado di lavorare sul presente, sul qui e ora, sia a livello narrativo che visivo. Perché il racconto in presa diretta non passa esclusivamente attraverso la forma documentaristica, che pure ha uno spazio importante all’interno della selezione, ma si nasconde tra le pieghe della finzione, dei progetti fotografici, fino ad arrivare all’animazione, spesso terreno di sperimentazione e rielaborazione sulla guerra (da Una tomba per le lucciole a Valzer con Bashir, con in mezzo gran parte della produzione di Miyazaki: la lista è lunga).
Impossibile trovare un filo che leghi tutti i film, anche se il concetto di patria – nel senso di Heimat – è comune a quasi tutte le opere. Lo è nella storia drammatica di Muhi – Generally Temporary dove un bambino di Gaza, affetto da una gravissima malattia autoimmune, vive per anni assieme al nonno in un ospedale israeliano che si trasforma in un non-luogo geografico, al pari degli aeroporti; lo è in Mirrors of Diaspora dove il regista Kasim Abid torna, a 25 anni di distanza, a trovare gli artisti iracheni emigrati in Italia sul finire degli anni ’70 e poi costretti a non tornare per le mutate condizioni politiche (leggasi ascesa al potere di Saddam Hussein); lo è in Palestinian, Us First in cui la regista israeliana Moran Ifergan, tre generazioni dopo la Naqba, interroga i giovani per capire a che punto sia il processo di integrazione (ma il termine è chiaramente sbagliato) tra occupati e occupanti e smascherare il cortocircuito che vorrebbe racchiudere dentro un unico contenitore concetti come lingua e nazionalità.
Narrativo ma anche visivo, ho scritto in apertura, perché l’intelligenza di un festival come questo che racconta il Medio Oriente sta nel non fermarsi alla testimonianza, ma accogliere lo sguardo interno delle nazioni coinvolte che può attraversare i generi (animazione, dramma, commedia) o diventare addirittura ombelicale (Sans Bruit, Les Figurants du Desert sguardo d’artista del Collectif MML su Ouarzazate, la Hollywood marocchina).