Giudizio e ideologia
Un pescatore, Nam Chul-woo, esce a pescare come ogni mattina. La sua area non è lontana dal confine tra Corea del Nord e Corea del Sud e per salire a bordo della sua barca a motore attraversa un posto di blocco doganale. Una mattina le guardie gli chiedono cosa avrebbe fatto se gli fosse capitato di oltrepassare il confine e quel giorno stesso le reti, per una corrente anomala e contraria, si torcono attorno alla pala bloccando il motore.
La barca è alla mercè dei venti ma Nam non può lasciar scivolare via il frutto di tanti suoi anni di lavoro, sacrificio e ristrettezze. Resta così a bordo chiedendo invano aiuto e fidandosi del fatto che non sarà difficile giustificare l’accaduto ai soldati del Nord.
È qui, dopo quest’esposizione dei fatti rapida e senza eccedenze, con un montaggio chiaro e agile ma anche concitato, che il vero film di Kim Ki-duk, Il prigioniero coreano, ha inizio. La sua impronta autoriale, così documentaristica nella finzione, priva di retorica e compromesso, si dipana attraverso un corpo attoriale teso, estremamente comunicativo, e un’esasperazione senza freni, cifra del vivere contemporaneo. Nam viene portato in un centro di detenzione dove si deciderà del suo futuro. Due posizioni opposte si scontrano: c’è chi lo vede come una vittima della dittatura a cui dare la possibilità di una vita normale e chi lo ritiene un possibile criminale che va smascherato con ogni mezzo lecito o meno. I primi gli offrono la cittadinanza in Corea del Sud, i secondi, ad ogni minimo segno di ambiguità, ne propongono la morte. Due personaggi incarnano le fazioni: un giovane avvocato attentissimo ad ogni minima violazione giuridica e un agente, incaricato agli interrogatori, dalle mani pesanti, diffidente e testardo. Entrambi suddividono il tempo aciclico di Nam in cella tra speranza e disillusione, tra voglia di cedere alle lusinghe di un paese libero e orgoglio patriottico innalzato a muro di difesa.
Il dilemma di Nam è però privo di qualsivoglia tensione ideologica, è piuttosto il dilemma omerico tra ritorno ed oblio, tra società e individualismo: l’unica cosa che lo induce a voler tornare è la sua famiglia. Kim Ki-duk racconta così il progressivo svuotarsi e indebolirsi di Nam che diventa allo stesso tempo capro espiatorio e feticcio ideologico, eroe e spia. Le immagini migliori del film lo vedono a passeggio per Seul, tra vetrine luminose e persone sorridenti che si godono il tempo libero, le regole patrie gli imporrebbero di chiudere gli occhi e non vedere nulla del mondo capitalistico. Inizialmente vi è fedele ma poi Nam non resiste, si scioglie, si trasforma in chi vuole vedere tutto per giudicare. Il suo responso, adombrato di cinismo, sarà capace di accendere luci sinistre sul nostro mondo, un mondo di cui abbiamo smesso di chiederci se sia davvero il migliore possibile.
Il prigioniero coreano [Geumul, Corea del Sud 2016] REGIA Kim Ki-duk.
CAST Ryoo Seung-bum, Kim Young-min, Lee Won-keun, Choi Gwi-hwa.
SCENEGGIATURA Kim Ki-duk. MONTAGGIO Park Min-sun.
Drammatico, 114 minuti.