Radiografie
Nel giro di pochi mesi Steven Spielberg ha convinto critica e pubblico con l’impegnato The Post e con il stratificato blockbuster Ready Player One. Due opere, se si esclude il fatto che siano entrambe girate come ci si aspetta da Spielberg – cioè, alla perfezione −, all’apparenza difficilmente avvicinabili.
Del resto, trovare le coordinate di un cinema più complesso e variegato di quanto si possa pensare nell’immediato come quello di Steven Spielberg non è così semplice, e molto dipende da dove viene puntato il lumicino: sulla retorica talvolta eccessiva e ridondante, sul fiuto per i grandi successi, oppure sull’immensa capacità di lavorare sull’immaginario collettivo o sulle riflessioni più amare d’inizio carriera o degli ultimi anni. I detrattori convinti non sono pochi, e considerano l’autore campione di retorica e dei blockbuster più sentimentalisti e ruffiani, bandiere del più banale orgoglio a stelle e strisce. Come a volergli fare pagare con il loro distacco il fatto che Spielberg sia il regista che più ha incassato nella storia del cinema hollywoodiano (e quindi, non solo), spesso scendendo a patti con le regole del grande film di cassetta. In realtà Spielberg è certamente sempre stato conscio e affascinato sostenitore della magnificente natura di spettacolo popolare del cinema, e del suo potenziale più immediato, e talvolta anche ingenuo, di veicolo verso il sogno, la magia e la meraviglia; uno spettacolo a misura d’innocenza di bambino, la stagione della vita del protagonista del suo film sotto certi aspetti forse più significativo perché comprende quasi tutte le essenze del suo cinema, comprese le contrastanti tra loro: A.I. Intelligenza Artificiale. Spielberg è stato però anche uno dei principali cantori dell’uomo medio americano, dei suoi valori, delle sue speranze e delle sue paure. Il suo cinema è stato spesso una sorta di radiografia, molto più profonda delle apparenze, della spina dorsale della società americana, e una sismografia dei sommovimenti sotterranei che hanno minato la sua base e i suoi valori. Valori che, nella loro essenza, il regista ama esaltare e difendere, soprattutto se li considera in pericolo: con magari troppa retorica se c’è entusiasmo, ma con estrema lucidità e sincerità se qualcosa non gli torna. Al centro di molti suoi film c’è infatti la tensione che un evento inaspettato e grandioso provoca in questi valori e in chi li rappresenta, che sia quest’evento un camion impazzito, l’arrivo – pacifico o minaccioso − degli alieni, un conflitto civile, un profugo che vaga nell’aeroporto, l’attacco alla libertà di stampa o la guerra fredda. È inutile ribadire che l’11 settembre sia stato nella storia recente il più tragico sommovimento che ha scosso nel profondo gli Stati Uniti e la loro auto-percezione, ma è meno ovvio sottolineare che è stato Spielberg – probabilmente proprio perché entusiasta sostenitore − uno degli autori più lucidi nel cogliere la crisi e il traballamento dei valori più profondi dell’”American Way Of Life” e della consapevolezza statunitense. Regalando almeno un capolavoro: Lincoln, il nuovo asciutto schema dell’eroe americano, sofferto, all’occorrenza cinico, ricco di chiaroscuri e travagliato. Confermato dalla straordinaria e fordiana prima parte de Il ponte delle spie, che poi verso il finale lascia sempre più spazio alla retorica che poco piace ai detrattori, dalla rabbia implacabile e non urlata di The Post e dai sottotesti che animano Ready Player One.