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La notte degli Oscar 2018

sabato 10 Marzo, 2018 | di Michele Galardini
La notte degli Oscar 2018
Editoriale
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#Oscarsoboring
La paura fa novanta e anche gli Oscar. Quella andata in scena nella serata di domenica 4 marzo verrà ricordata come una delle premiazioni più caute e timorose degli ultimi anni, una sorta di iniezione massiccia di morfina su un paziente che nemmeno aveva chiesto il ricovero. Le conferme sono state confermate e gli esclusi sono stati esclusi, per la gioia dei bookmakers e per la noia di tutti gli altri.

Ormai orfani dello spannung per l’Oscar a DiCaprio e del mini-spannung personale per Kevin O’Connell che dopo 22 tentativi è finalmente riuscito ad aggiudicarsi la statuetta come miglior sound mixing per La battaglia di Hacksaw Ridge nel 2017, a cosa potevamo aggrapparci per fare notte bianca davanti allo/agli schermo/schermi? Alla fine, sapendo come sarebbe andata a finire per i premi principali, non restava che tifare per Roger Deakins, uno dei migliori direttori della fotografia viventi, e per il suo lavoro in Blade Runner 2049. Detto fatto: Deakins vince. E ora?
Non che gli Academy cambino la vita a qualcuno fuori dal Dolby Theater ma siccome il nostro compito è analizzare e proporre una lettura (parziale, possibile?) forse, più della cerimonia in sé, è interessante vedere cosa l’ha preceduta: lo scandalo Weinstein, su tutto, e la coda lunga ma già dimenticata di #oscarsowhite. Del primo resta la facciata, con la paladina Greta Gerwig e il suo Lady Bird candidati in quasi tutte le categorie principali ma usciti a mani vuote; del secondo la reiterazione di una forma mentis che vuole gli Oscar patrimonio dei bianchi anche quando perdono (vedi la tragicomica premiazione di Moonlight). Eppure le premesse per vedere un paio di statuette in più nelle mani di Gerwig e Peele c’erano tutte, un po’ perché negli ultimi giorni le quotazioni di Del Toro erano calate vertiginosamente e un po’ perché molti covavano la speranza che qualcosa fosse veramente cambiato in profondità. Invece è accaduto esattamente il contrario con la ninna-nanna del regista messicano che ammalia a tal punto i votanti da lobotomizzarli al momento di scegliere la Miglior regia, facendoci quasi rimpiangere la giuria demoscopica di Sanremo.
Cosa resterà, dunque, di questa cerimonia? Tre cose, in ordine sparso: Ivory che ritira il premio con la faccia di Timothée Chalamet stampata sulla camicia, Sam Rockwell che dedica la vittoria al suo amico Philip Seymour Hoffman e Kobe Bryant che, da oggi, ha vinto più Oscar di Hitchcock, Kubrick e Chaplin messi assieme. Tutto il resto, seppur a tratti bellissimo come Frances McDormand, è noia.

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