Quando parliamo di cinema abbiamo a che fare con il desiderio: quella tensione che ci lega alla storia sullo schermo, che ci fa identificare con l’altro, che ci spinge ad innamorarci (come raramente ci succede a teatro, davanti a un dipinto, di fronte a un libro) e forse per questo ha il potere di farci uscire ogni volta distrutti e rinnovati, in una trasformazione che sconvolge le nostre certezze più profonde e attenua le nostre paure.
Luca Guadagnino lo sa benissimo, e non a caso continua a girare attorno alla rappresentazione del desiderio al cinema nei suoi film: con Chiamami col tuo nome rinuncia alle concettualizzazioni alla base degli altri suoi film (il conflitto tra alta borghesia, nuovi ricchi e proletariato che si agitava scomposto in Io sono l’amore e A Bigger Splash), scegliendo invece una strada più semplice, ma sicuramente più efficace. Chiamami col tuo nome è un film che si preoccupa soltanto di mettere in scena l’innamoramento e le sue conseguenze, senza bisogno di creare sovrastrutture, anzi partendo dai luoghi dell’infanzia del regista (un Nord Italia borghese e campagnolo, così poco rappresentato al cinema) e dalla volontà di girare attorno al corpo statuario di Armie Hammer. Ed è proprio in questa fisicità e immanenza del sentimento, che la storia di Elio e Oliver riesce a diventare la scoperta dell’amore per eccellenza, uscendo da quelle etichette che spesso relegano in un angolo i film a tematica LGBTI.
Il momento speciale che stiamo vivendo è proprio segnato dalla presenza non celata di autori che della loro sessualità sono riusciti a fare una chiave interpretativa del presente: per questo il nuovo millennio è segnato dal cinema inquieto di Gus Van Sant, Todd Haynes, Robin Campillo, Cèline Sciamma, Xavier Dolan. Tutti registi che hanno saputo connettere il loro “sentire” con una trasformazione alla base della vita di ciascuno, tra l’urgenza di una rivendicazione dei diritti e la libertà creativa della fluidità di genere.
A questo cinema, che non esisterebbe senza la rivoluzione di Un chant d’amour di Jean Genet, è dedicato il Lovers Film Festival – Torino LGBTQI Visions (20-24 aprile 2018), manifestazione presieduta da Giovanni Minerba e diretta da Irene Dionisio, in cui ogni anno nuove generazioni di autori riescono a portare in Italia i loro film e a costruire un dialogo che vada oltre la durata della visione. Una scommessa sui nuovi sguardi, una promessa al cuore della nostra democrazia.