SPECIALE CINEMA LGBTQ
“Oh, will wonders ever cease?”
L’adattamento di James Ivory della storia dell’amore estivo tra Oliver, in vacanza-studio nella residenza estiva del professor Perlman, archeologo, e il di lui figlio diciassettenne, Elio, si consuma in un contesto socio-culturale talmente idilliaco da rasentare l’impossibile: una villa lussureggiante nella campagna fuori Crema, una famiglia poliglotta, coltissima e di molto aperte vedute, un adolescente che legge continuamente e riarrangia musica classica per hobby, contornato da amiche bellissime.
Ce ne sarebbe abbastanza da far alzare il sopracciglio, se Chiamami col tuo nome non fosse anche una delle più intense e felici rappresentazioni dell’innamoramento, del desiderio e del sesso, che si nutre scena dopo scena di quell’ambiente protetto e senza tempo: Grillo in TV, Craxi che avanza ed effigi di Mussolini ancora appese a qualche casa non sono che un contorno che in nessun modo può scalfire la voracità incerta di Elio né la fisicità sfacciata di Oliver (ruoli della vita per Timothée Chalamet e Armie Hammer) e delle statue che occhieggiano dalle diapositive del professore. È evidentemente questa la dimensione narrativa e visiva in cui la regia di Guadagnino si esprime al meglio, dove la maniera è perfettamente controbilanciata dall’assenza di dramma e del peso di un punto d’arrivo. La chiave è nel titolo stesso: il reciproco scambio del nome è l’emblema del contrario del possesso, è il donarsi attivamente, prendendo l’uno dall’altro; non inseguimento ma incontro, dove il più giovane, inesperto e naturalmente irrequieto è anche il più audace, quello meno imbrigliato dal pregiudizio sociale – anche per casuale “privilegio di nascita”, a differenza di Oliver, di famiglia più tradizionale. Le tappe riconoscibili dell’innamoramento si stratificano languide su un tappeto di suggestioni sonore (ottima la selezione musicale, da Franco Battiato a Sufjan Stevens) e visive quasi più esplicite nel corso del corteggiamento (sguardi, spalle, nuche, gambe, sfioramenti e gli onnipresenti frutti), che quando si giunge all’incontro vero e proprio, in cui la macchina da presa si mostra inspiegabilmente pudica (ben più che nelle precedenti scene di sesso eterosessuale). E infine una manciata di sequenze memorabili: la dichiarazione −“because I wanted you to know”− presso l’ingombrante monumento alla battaglia del Piave che sembra uno strano corrispettivo dell’“elephant in the room”; uno splendido dialogo padre-figlio di reciproca apertura e comprensione, che esalta la bravura di Michael Stuhlbarg; il citatissimo long-take finale, sguardo in macchina di lacrime e aggrovigliamento emotivo. Una chiusa necessariamente struggente eppure emblematica di una pienezza esperienziale priva di sofferenza.
Chiamami col tuo nome [Call Me By Your Name, Italia/Francia/USA/Brasile 2017] REGIA Luca Guadagnino.
CAST Timothée Chalamet, Armie Hammer, Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garrel.
SCENEGGIATURA James Ivory (tratta dall’omonimo romanzo di André Aciman). FOTOGRAFIA Sayombhu Mukdeeprom. MUSICHE Sufjan Stevens.
Sentimentale, durata 132 minuti.