Un lieto fine. Uno dei tanti.
Happy end. Lieto fine. Ma che ce ne facciamo, onestamente, di un cinema a lieto fine? Di questi tempi poi. Dunque domanda alla quale rispondere non è così facile. Ci prova allora Michael Haneke con il suo ultimo film.
Siamo nei soliti territori bazzicati dall’austriaco: l’indagine è di nuovo su un nucleo borghese (insomma, ciò che seziona, e allo stesso tempo ritrae, la privilegiata struttura sociale capitalista) nel quale le incoerenze e le (in)sofferenze la fanno da padrone. Stavolta però lo sguardo è più posato, meno volutamente incisivo, in una parola: sospeso. E dire che questi personaggi si sarebbero meritati ben altro. Diciamolo subito: non è che Haneke non provi a creare un discorso preciso e attuale su ciò che ci presenta (diremmo meglio con: “ciò che mostra noi stessi agli altri” e cioè, oramai sempre di più, lo schermo di uno smartphone) e ci rappresenta (diremmo meglio con: “nel quale ci identifichiamo” e cioè, nel bene e nel male, la famiglia) nella società occidentale, ma la vista a questo giro ci sembra un poco sfocata. Sì, è vero, stiamo comunque sia parlando di un autore. E un autore prova a percorrere un itinerario e ha bisogno anche di momenti nei quali ci si fermi, per poter riflettere e poi ripartire. Ma i tempi nei quali il cinema dell’austriaco era violento e diretto ci mancano un sacco. Prendiamo Eve, la ragazzina che avvelena la madre e che sembra esistere e dire le verità del mondo che le appartiene solo attraverso i video del suo telefono cellulare. Bene, non sembrano individuare un ritratto tanto preciso quanto riuscivano a fare i video del protagonista di Benny’s Video. Per carità, verissimo: epoche diverse necessitano di linguaggi differenti. Ma quella sordida spietatezza, quel modo di dire le cose diretto che ci piaceva tantissimo, che creava linee narrative che trapassavano l’inessenziale e colpivano precisamente al cuore, sembrano, in questo Happy End, essersi ormai dissolte. C’è solo il nume tutelare del precedente Amour a farci da garante: in qualche modo ci dice che, probabilmente, più avanti uniremo i pezzi del puzzle e anche questo film si rivelerà un capolavoro. Ma adesso no. È troppo presto per il vero lieto fine. Intanto ci accontentiamo delle briciole di questo; è tutto − naturalmente − condensato nelle ultime immagini provenienti dallo smartphone di Eve: ribaltare la prospettiva, vederla nel Reale e comprendere che è il gioco più facile del mondo. Il suicidio non è un atto da mostrare al mondo, non un gesto per far della propria futura assenza una presenza, ma un modo per trovare un’intimità conclusiva con ciò che siamo stati e ciò che ci ha reso umani. Probabilmente lo è, ma non riusciamo ancora del tutto a comprenderlo.
Happy End [id., Francia/Austria/Germania 2017] REGIA Michael Haneke.
CAST Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant, Mathieu Kassovitz, Fantine Harduin, Toby Jones.
SCENEGGIATURA Michael Haneke. FOTOGRAFIA Christian Berger. MONTAGGIO Monika Willi.
Drammatico, durata 107 minuti.