Even Stranger Things
Accadono cose ancor più strane a Hawkins nel 1984. Accadono cose più strane di quelle che già si erano viste, perché i nostri giovani protagonisti sono cresciuti, hanno un anno in più sulle spalle e a quell’età, si sa, non è certo cosa da poco. E ancora più strane sono le creature che abitano il sottosopra.
La più pericolosa e inquietante sembra essere il “Mind Flayer”, il minaccioso mostro di pulviscolo che si impossessa di Will annullandone completamente la volontà.
Cose ancora più strane: perché l’adolescenza è fatta di zone ombratili, di incomprensioni, di incapacità a capirsi e conoscersi e a comprendere l’altro. È chiaro quindi come la seconda stagione di Stranger Things sia il proseguo di un percorso già iniziato nel precedente capitolo: un monolite che si traveste da teen dramedy fantascientifica, che fa il verso al cinema più biecamente postmoderno – ma senza mai ridicolizzarsi, perché alta è la consapevolezza sul materiale trattato e riplasmato – e che, ancora, cerca di calibrare la giusta dose di figuralità per poter parlare del mondo contemporaneo pur facendo abitare ai propri personaggi quello dei “favolosi” anni Ottanta. E sta proprio nei giovanissimi protagonisti la grande qualità di questa serie Netflix: si percepisce ancora di più la sapienza con la quale i Duffer Brothers hanno scolpito i caratteri e le psicologie di ognuno di loro, dando così spazio a una crescita che si denota, come in un grande bildungsroman, ogni episodio che passa. Il racconto è, perciò, estremamente solido nonostante qualche impasse creativa e qualche ripetizione, le quali vengono comunque sia sempre risolte con grande leggiadria. Grandi protagonisti, ma anche grandi comprimari: bellissime, ad esempio, le sfumature con le quali sono stati scritti due personaggi importantissimi come Bob e Billy, cercando sempre di creare uno scarto tra lo stereotipo (e il prototipo) dal quale si attinge e l’idea che probabilmente ogni spettatore si farà di loro dopo averli incontrati. La cosa che però stupisce più delle altre è come aumenti l’attenzione sul gruppo: non è solo il solito, seppur nobile, “l’unione fa la forza”, ma qualcosa di più, come una specie di bisogno anche legato alla messa in scena, alla gestione emotiva degli spazi, che quando sono abitati da una moltitudine di personaggi è come se acquisissero più colore e dinamismo sentimentale. Insomma, Stranger Things è già totalmente un oggetto di culto; imperdibile per tutti quelli che possono dirsi appassionati di serialità audiovisiva, accende scontri anche solo per far decidere a ogni spettatore quale sia il proprio personaggio preferito. Un grande e perfetto meccanismo in cui tutti giocano, sullo schermo e davanti a esso. E, d’altronde, come scriveva Platone, “si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco, che in un anno di conversazione”.