Parlare di critica, fare della critica, oggi (e sempre): ogni volta è come stare dinnanzi a delle colonne d’Ercole. Sul precipizio dell’errore, dell’abbaglio, nella coscienza, che è nostra etica, di poter asserire quanto è buono e quanto non, talvolta con un po’ di spontanea arroganza. Pare un miracolo epifanico ogni innamoramento da 70mm, o da 16, e il focolare settembrino, puntuale, ci ha trovati assetati.
È così che ripiombiamo in un incanto fattucchiero mentre certi stregoni massimi spargono la loro polverina prodigiosa (o neve bianca?) sui nostri appetiti scodinzolanti, cosicché noi spettatori-golem ritualmente accorriamo alle fauci umide dei nostri creatori, tutti differenti, tutti amati, tutti temuti: prima Nolan, poi Wright, ancora la Coppola e, infine, dall’alveolo barocco che si è costruito, Nostro Signore delle Stroncature, Aronofsky, con le sue derive escatologiche e i suoi presepi viventi. L’esaltazione dionisiaca (per l’analogico di Christopher, per i dagherrotipi mesti di Sofia, per i calvari psicotici di Darren) è ciò che move il sole e l’altre stelle; un baccanale a cui partecipiamo volentieri (che, si sa, fa presto a diventar messa – o tribunale).
Capita così di dover maledire un po’ quel fantasma del Natale passato che di nome faceva François Truffaut, tanto benefattore quando con la politique legittimò tutti i mostri del nuovo mondo, quanto penitente nell’immaginare (immaginiamo) la disgregazione del concetto in mano al sovrappopolamento critico: una congrega che al rogo mette e dal rogo toglie, insindacabilmente protetta dalla colta dottrina. Quella perennemente incline ai fondamentalismi di chi “se l’ha fatto lui/lei allora (non) va bene”.
Eppure, sordido e impaurito, o maturo e necessario, s’insinua un certo desiderio di mediocrità, di mediazione – cioè di saperla vedere nel corpus isolato (e fondatamente isolabile) del manufatto-film con un inizio e con una fine, del contesto produttivo, della confezione. Al di là di introiettati apriorismi autoriali, nel nome oltraggioso della laicità. Non la si raggiunge mai del tutto, ma è giusto pensare di poterla inseguire.
Che la moderazione non sia (mai stata) di moda? Chi può dirlo. Ancora una volta ci manca la pulizia dello sguardo del neofita, quella coraggiosa ingenuità; per generare scritti appassionati, ma non ciechi. Ché, così pensando, i succitati cineasti, animati sì dal loro sguardo ambizioso e da atteggiamenti artistici opposti, diventerebbero riducibili e avvicinabili: Dunkirk è un film sulla guerra per la guerra; L’inganno parla di amore per la melanconia; Madre! di religione e narcisismo; Baby Driver (evviva!) ancora di amore. Che bella la semplicità. Non facciamoci ingoiare dai nostri stessi maestri.