La sequenza dei titoli di testa di Baci rubati (1968) di François Truffaut si apre con un movimento di macchina da presa, accompagnato da una canzone. La macchina scivola all’esterno di un grande edificio del XVI arrondissement di Parigi, mentre risuonano le note di una vecchia canzone di Charles Trenet, Que reste-t-il de nos amours? (Che cosa resta dei nostri amori?, 1942), fino a giungere al margine di una scalinata. In fondo ai gradini campeggia un cartello: “RIPOSO: la data di riapertura sarà comunicata a mezzo stampa”. Nel frattempo, una sovrimpressione aggiunge a questo enigmatico avvio un senso preciso, un non sequitur nelle successive vicende del terzo episodio del ciclo di Antoine Doinel: “Questo film è dedicato alla Cinémathèque di Henri Langlois”.
Per chi ancora frequenta Truffaut, l’uomo che amava il cinema, le ragioni di questa sequenza non sono così misteriose e si inscrivono in una passione totalizzante per il medium, per le sue forme e per la unicità dei luoghi per goderne. Baci rubati si inserisce infatti nella lotta condotta da Truffaut e numerosi altri cineasti per rigettare la decisione dell’allora Ministro della Cultura della République, André Malraux – non esattamente un burocrate prestato alla cultura! –, che nel febbraio 1968 aveva sollevato dall’incarico il fondatore della Cinémathèque Française, culla della cinefilia e della nouvelle vague parigina, Henri Langlois. Malraux intendeva rinnovare l’istituzione, sostituendo Langlois, alla sua guida dal 1935, con Pierre Barbin. Mentre sullo sfondo si preparava il Maggio francese e in perfetta concomitanza Truffaut realizza il suo film, il critico e cineasta organizza il movimento di protesta per la decisione ministeriale, partecipa a feroci discussioni nel Consiglio di Amministrazione della Cinémathèque e si prepara a un possibile risultato mediocre per il suo film con uno slogan geniale: “Se Baci rubati è un buon film, è solo grazie a Langlois, e se è brutto, ne è causa Barbin.”
Pensavo a quel film molto bello, forse grazie a Langlois, sicuramente a Truffaut, Léaud e Seyrig visitando una splendida mostra dedicata ai diorami, ospitata al Palais de Tokyo, dove la Cinémathèque fu dislocata da Jack Lang tra il 1984 e il 1996. Uscendo dall’esposizione mi sono imbattuto nella insegna scrostata, mai intonacata, che indicava l’accesso alla sala dell’istituzione. È stato un incontro curioso, tanto più che i diorami esibiti lì accanto mostravano l’evoluzione di un modello di sguardo: dalla meraviglia settecentesca per il potere visivo all’ambizione positivista ottocentesca di racchiudere in un solo colpo d’occhio spettacolo e informazione scientifica, fino alla riflessività odierna, in cui il diorama è operazione estetica che combina la critica del predominio della vista e frammenta il proprio oggetto.
Del tempo in cui il cinema era al centro di templi della cultura, metteva in dialogo finzione e realtà, e lo sguardo ambiva a contemplare tutto è rimasta qualche incrostazione. Anche in quel che è stato il suo centro di culto. Ne restano magnifici o melanconici frammenti. Un abbacinante vizio di forma, secondo Pynchon, o l’indizio di una cronicità peculiare, a leggere Lethem.