È interessante notare come il leit motiv scelto dal Far East Film Festival per la sua edizione numero 19 contenga un duplice e ambivalente significato. L’anno del Gallo – con corredo di gadget a tema, su tutti la piuma azzurra come tratto distintivo del “popolo” dei fareasters – porta coraggio e tenacia, sprona a rinnovarsi e migliorarsi e a non arretrare di un millimetro sul progetto iniziato ormai quattro lustri fa.
Ma, d’altra parte, quando il gallo canta (anzi, “when the rooster crows”, come diceva il giocoso sottotitolo di un documentario presentato proprio a Udine due anni fa, per la regia dell’italiano Leonardo Cinieri Lombroso) è tempo di svegliarsi, di reagire e di agire. Il festival friulano si muove da sempre all’interno di questa forbice, continuando a (r)esistere nonostante i finanziamenti oscillanti e la fatica a rinnovare il proprio impegno artistico in una regione di confine, lontana dai riflettori delle grandi città e dai grandi investimenti pubblicitari.
Per dieci giorni si cerca di smuovere un’intera città, partendo dall’unità di luogo del Teatro Nuovo di Udine (primo tratto dominante dell’evento) per coprire capillarmente le vie del centro cittadino coi cosplay contest, i corsi di cucina, i laboratori per bambini e le retrospettive nella “succursale” del cinema Visionario. A fare la forza della kermesse è l’appoggio incondizionato del pubblico, che deve – nelle intenzioni degli organizzatori – restare immutato indipendentemente dalla qualità dei film proposti.
Il Far East è “far” (lontano) perché fa conoscere realtà culturalmente agli antipodi, prima ancora che distanti geograficamente. Come accaduto per la presenza degli idol giapponesi Saitoh Takumi e Ueto Aya – protagonisti del melò Hirugao, inseguiti da una troupe nipponica che filmava ogni loro spostamento cercando di comandare anche le reazioni del pubblico (pratica evidentemente consueta nel Sol Levante). E all’opposto è piacevole scoprire come altri mondi siano inconsapevolmente legati a noi: la presenza del primo film proveniente dal Laos (Dearest Sister) ha coinciso con l’intervento della guest star più “familiare”, la regista Mattie Do, che parla un fluente italiano avendo lavorato per anni a Roma come tata (!). Di fronte a questo comodo “viaggio” sulle poltroncine di velluto rosso in effetti il valore delle singole pellicole perde di significato, resta subordinato ad un intento più nobile e “alto”. Il semplice – e non irresistibile – trailer animato di Johnnie To in fondo parla proprio di questo: di una babele di nazioni che si muove coordinata verso un’unica direzione, verso un unico scopo. Quello dell’unione, della condivisione, attraverso il fil rouge dell’Arte.