Sono rimasto incantato guardando le immagini di quello che è diventato un tormentone, una scheggia di normale viralità nel mare magnum della rete: la premiazione al David di Donatello di Valeria Bruni Tedeschi.
Riassumendo: Valeria Bruni Tedeschi riceve il riconoscimento come migliore attrice protagonista per La pazza gioia e il suo ringraziamento si converte in una geniale performance, in bilico tra la nuova interpretazione del personaggio e l’ennesima rappresentazione di se stessa. Perché Bruni Tedeschi su quel palco, camminando in equilibrio tra vita e scrittura, ci ha parlato, in un modo alto e nello stesso tempo pratico, di quello che è il mestiere dell’attore, il suo senso, la sua missione e, in termini più generali, di cosa significhi mettere in scena, porgere un testo, consegnarsi a una parte, donarsi al pubblico. Con quel discorso in cui ha ringraziato “la sua povera psicanalista” (dettaglio non trascurabile, perché apre alla messa in abisso), ha suggerito un’ambiguità, ha denudato la zona grigia che separa il pensiero intimo dalla recita. E facendolo nel modo più sottile, mentre si sta ricevendo un premio per quella che è l’arte di cui si sta dando prova in diretta, ha fatto cascare lo spettatore in una vertigine. Vertigine doppia per chi abbia conoscenza diretta del ruolo per il quale quel premio veniva ricevuto. Vertigine che tende a infinito se chi guarda può confrontare lo speech con quello che è il cinema che la Nostra ha prodotto in veste di regista. Perché in quel cinema (mediamente sottovalutato, e da me, al contrario del premiato film di Virzì, molto amato) Bruni Tedeschi mette davanti alla macchina da presa se stessa, nel ruolo di una Valeria cinematografica, romanzata (ma possibile), impastata di dilemmi autentici, vita vissuta e drammi sublimati. E questa premiazione ne è il naturale prolungamento, perché all’attrice riesce questa cosa difficilissima di mostrare la sua reazione spontanea e nello stesso tempo di attribuirla, con consapevolezza, al personaggio che ama incarnare. Ed eccola allora su quel palco a giocare il ruolo dell’attrice, a disorientare ancora una volta il pubblico, partendo da un copione predisposto, calcolato (quei fogli), un testo che doveva imbrigliare il suo intervento, renderlo funzionale e non dispersivo, e trasformarlo in un canovaccio. Ecco il ringraziamento trasformarsi in riso, commozione, urgenza di offrire al pubblico qualcosa in cambio di quel premio. Eccola la pazza gioia: quella di recitare la verità.