Corpo e anima di un fantasma
Essere un fantasma dentro un corpo artificiale, un “ghost”, il primo essere interamente creato in laboratorio ma con all’interno il cervello di un essere umano, che racchiude oltre alle emozioni anche le paure e i dubbi della sua anima. In un futuro in cui quella biotecnologica è diventata la prima industria mondiale e nella quale la maggioranza dell’umanità ha deciso di trapiantarsi dispositivi tecnologici in supporto al proprio corpo, il Maggiore Mira rappresenta il primo passo verso il futuro: robot controllati da un cervello umano e adoperati ovviamente all’uso militare come armi definitive.
Questa trasposizione cinematografica di Ghost in the Shell, in origine manga di Masamune Shirow che dopo quasi 30 anni rappresenta un vero e proprio fenomeno culturale e mediale nonché punto di riferimento per molta della produzione cyberpunk, non inventa nulla prendendo a riferimento non solo il testo originale ma un’immaginario ben definito. Impossibile che la memoria non vada a Blade Runner quando vediamo la Tokyo fatta di strade all’altezza di grattacieli e ologrammi pubblicitari giganteschi; ma per quanto tutto sia già visto, affascina nel suo equilibrio tra la pulizia degli ambienti modernamente retroilluminati da led e neon e la sporcizia che fuoriesce da un sottobosco urbano e criminale fatto di locali nascosti e impianti biotecnologici non cromati da mercato nero. C’è anche tanto Matrix nella pellicola di Rupert Sanders, soprattutto nel vedere la rete informatica diventare neuronale nella sua rappresentazione (di glitch o di virus) organica, come incubi a occhi aperti troppo reali. Ed è proprio questa rete informatica condivisibile e tangibile a diventare chiave per trovare e venire a contatto con un misterioso terrorista che sta facendo strage di ingegneri biotecnologici, ma potrebbe avere importanti informazioni sul passato del Maggiore. Ghost in the Shell narrativamente segue abbastanza canonicamente e senza grandi sorprese un certo standard, quello di un’eroina fredda e impassibile nelle proprie azioni che porta a compimento perfettamente ma con distacco la propria missione, finché lo switch narrativo non le farà mettere in discussione tutto ciò che conosceva del suo mondo. Se la ricerca di un’anima al proprio operato e ciò che definisce noi stessi sono il fulcro del discorso filmico, l’impassibilità di Mira mostra il distaccamento tra anima e corpo, dato che quest’ultimo è visto costantemente come arma e non parte integrante di sé. Spettacolarmente è un film riuscito che crea un immaginario, per quanto già visto, superficialmente d’impatto e affascinante come il corpo della sua protagonista, ma che solo a tratti trova un’anima (ed è principalmente grazie al contorno, dall’ambientazione alla colonna sonora) che lo faccia uscire dalla sua natura di blockbuster produttivamente riuscito, che non lo releghi a sola pellicola che sfrutta una licenza forte.
Ghost in the Shell [id., USA 2017] REGIA Rupert Sanders.
CAST Scarlett Johansson, Takeshi Kitano, Pilou Asbæk, Michael Pitt.
SCENEGGIATURA Jamie Moss, William Wheeler (tratta dall’omonimo manga di Masamune Shirow). FOTOGRAFIA Jess Hall. MUSICHE Clint Mansell, Lorne Balfe.
Fantascienza, durata 103 minuti.