C’era una volta un tempo in cui si credeva che il futuro delle TV sarebbe stato in 3D. Oggi il 3D è morto. La casa che meglio sintetizza nei dati la parabola discendente della produzione delle TV 3D è la LG, passata da un 40% delle TV prodotte che supportino la funzione tridimensionale nel 2015 a un 20% nel 2016, fino al fermo definitivo nel 2017.
Samsung, Hisense, Panasonic non sono da meno, accompagnate da Sony che chiude i battenti con la serie XD93. Una battuta d’arresto che decreta il totale fallimento della tecnologia tridimensionale imputabile a un’infinità di motivi tristemente riassumibili in “Non risponde ad alcun bisogno del consumatore”.
Se da una parte c’è chi ancora preme il piede sull’acceleratore come Ang Lee, che con il suo Billy Lynn – Un giorno da eroe in 4K 120fps 3D si è fatto vedere nella sua vera natura in sole 6 sale al mondo, schiantandosi quindi contro un muro, c’è anche chi pensa più in grande – e in termini più proficui – come James Cameron, padre con Avatar del fenomeno 3D del decennio scorso, che sogna già la tecnologia del futuro progettando per i sequel di Avatar la autostereoscopia, ovvero il 3D senza occhialini.
La rinascita del 3D di questi anni ’10 del 2000 aveva permesso di riscoprire e portare comodamente a casa alla portata di tutti, a 50 anni di distanza dal loro concepimento, titoli come Il delitto perfetto (Alfred Hitchcock, 1954) e Il mostro della laguna nera (Jack Arnold, 1954) nella loro concezione originale. Ora come allora, siamo destinati a subire una nuova perdita d’espressione, difficilmente reperibile e riproducibile. Non penso tanto ai blockbuster, quanto a quei film d’autore in cui il 3D non è un solo un valore aggiunto, bensì il fulcro dell’opera stessa. Star Wars: Episodio VII – Il risveglio della Forza e Inside Out, benché depotenziati, sopravvivranno ugualmente senza 3D, proprio come sono sopravvissuti Il delitto perfetto e Il mostro della laguna nera. Ma che senso hanno privati della terza dimensione le sinuosità delle caverne e delle pitture rupestri percepibili dall’occhio come un vero e proprio bassorilievo in Cave of Forgotten Dreams (Werner Herzog, 2010), la profondità di campo del palcoscenico che riproducono il lavoro tridimensionale delle coreografie di Pina Bausch in Pina (Wim Wenders, 2011) o l’uomo e la donna distanti tra loro, ognuno confinato nella propria lente dell’occhialino a sancirne l’invalicabile distanza di Adieu au langage – Addio al linguaggio (Jean-Luc Godard, 2014)?
E allora non può che riecheggiarmi nella mente che tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.