67. Berlinale – Berlin International Film Festival, 9 – 19 febbraio 2017, Berlino
Piccole perle da non trascurare
Mettiamo al bando la discussione sul ruolo dei critici: se servono – quando servono – a qualcosa è per scoprire il nuovo e il diverso e mostrarlo agli altri, sperando ne approfittino. Così, una delle cose migliori da fare in un festival è ritagliarsi un angolo per cercare nelle sezioni collaterali, fuori dal glamour dei concorsi, delle perle da regalare ai lettori. E Berlino in questo senso è un campo ricco.
Uno dei film migliori (forse il migliore) dell’intero festival è In the Intense Now di Joao Moreira Salles, presentato nella sezione “Panorama Documentari”: il film racconta l’evoluzione del ’68, dai sogni di gloria parigini alla débâcle di Praga attraverso i filmati amatoriali girati all’epoca, attraverso gli sguardi in prima persona dei militanti, partendo dagli occhi dei suoi familiari. Oltre all’appassionante racconto di un anno di grande intensità, Salles fa un accurato lavoro di critica alle immagini e delle immagini, utilizza la voce fuori campo per saldare storia e racconti ma soprattutto per analizzare cosa mostrano le immagini, come si mostrano, cosa racchiudono; perché ogni sguardo non è mai neutro, non è mai innocente. Un atto di riflessione intellettuale che è anche un commovente capitolo di storia personale. Ancora il Brasile stupisce, nella sezione “Generation” dedicata ai film con ragazzi, bambini o adolescenti, con Don’t Swallow My Heart, Alligator Girl! di Felipe Bragança, il quale al secondo lungometraggio conquista con un film di grande intensità e fulgore stilistico raccontando una lotta tra bande adolescenziali – tra West Side Story e Strade di fuoco – come una fiaba crudele, come un visionario e lussureggiante gioco di bambini in cui la magia della messinscena trasfigura la durezza della crescita. Una folgorazione avventurosa, uno di quei film che sa creare un mondo dal quale vorremmo non uscire più. Una piccola delizia, delicata e intimista arriva dal Giappone: Close-Knit, una dolcissima commedia familiare diretta da Naoko Ogigami che racconta di una bambina cresciuta da una madre assente che impara a conoscere e amare la nuova donna del padre, una transessuale. Sul tema dei ribaltamenti di ruolo e di genere classico nella narrativa moderna nipponica, Ogigami costruisce un film di grandissima cura nella descrizione dei personaggi, abile nel rendere i sentimenti, senza calcare mai troppo la mano del dramma facile ma rincorrendo le sfumature, i piccoli gesti. Un film tradizionale eppure sovversivo presentato in “Panorama”. E infine, sempre in “Panorama”, una scoperta neozelandese, o meglio samoana: One Thousand Ropes di Tusi Tamasese, dramma soprannaturale in cui un vecchio curatore che pratica una versione ancestrale dell’ostetricia deve affrontare il fantasma di una donna che gli si è insediato in casa per ricordargli una sua colpa. Un plot da horror giapponese diventa un modo intelligente, originale ed efficace per raccontare un dramma in cui il racconto universale possa sposarsi con una cultura lontana, con tradizioni e atmosfere inconsuete, come la città e i villaggi che si trovano a pochi passi di distanza. Gli antipodi si toccano: ed è ciò che di meglio si può augurare a un festival di cinema e d’arte.