Lupi nella notte
Rester vertical ha scosso l’ultima edizione del Festival di Cannes ed ha lasciato di stucco la critica francese che l’ha osannato per mesi. Fuori di Francia invece ha trovato scetticismo e scarso seguito.
Proviamo con questo contributo ad aggiungere un tassello alla risposta un po’ blanda del nostro paese e lo facciamo tirando in ballo Buñuel e la sua poetica a cui Guiraudie, con questo film e con il precedente Lo sconosciuto del lago, sembra rifarsi, almeno per il coefficiente di provocazione che sfida lo spettatore. Quello che altrove sarebbe stato un ritratto patinato o pietoso dello sceneggiatore in crisi, senza storie né quattrini, in Rester vertical è un abbozzo distaccato che disegna la figura di Léo né per farne una storia o ritagliare un argomento, né per indurre discussioni o svelare atteggiamenti. Come in Buñuel la realtà è un guanto che, per quanto possiamo ingannarci, esiste sia con la sua faccia esterna, costruita e disposta per essere giudicata e misurata, sia col suo risvolto, pieno di cuciture e addizioni necessarie alla funzionalità, brutto nel suo disordine difettoso. Léo non consegnerà mai la sceneggiatura richiesta insistentemente al telefono dal produttore, perché questa non c’è e perché quello che all’esterno è un professionista dedito e capace, all’interno è un uomo in stato confusionale, privo di geometrie di sensatezza in cui orientarsi e pieno degli stessi difetti di un guanto che lo rendono allo stesso tempo umano e anti-sociale. Queste contraddizioni sono le fratture che danno anima al film, che alternano a sequenze ordinarie e comunemente significative, sequenze per cui gli aggettivi nudo e crudo bastano fino ad un certo punto. I moralisti le definirebbero intollerabili perché dell’uomo e di ciò che di lui viene messo in mostra si tollera solo la parte ordinata con cesure e vistosissimi vuoti che razionalmente non si sostengono. Una scena mostra il parto di una donna senza tagli, censure o illusioni ottiche, dovrebbe essere la nascita del figlio di Léo e di Marie, una donna che aiuta il padre nella pastorizia, conosciuta durante un’escursione a piedi, ma sappiamo benissimo che è una nascita qualunque, di una donna qualunque. La verità non sta nel protagonista come non sta nel personaggio, la verità è nel gesto di nascere, uguale per tutti, ugualmente sporco e indecente, di cui vogliamo vedere solo la tenerezza successiva, la calma del sonno e la tutina colorata. Guiraudie grida e urla che siamo altro, siamo anche la parte che non vogliamo vedere, e allora Léo e le sue vicende ci sembrano un pretesto qualunque, il cui testo è l’uomo fuori dalla convenzione sociale, attratto e repulso dagli istinti, che trova vita nel morire fisico o nel morire di ogni speranza di inclusione o soddisfatta limitazione. Riusciamo ancora a scandalizzarci per discorsi simili? A quanto pare sì. Siamo ancora l’agnello circondato dai lupi della coscienza.
Rester vertical [Id., Francia 2016] REGIA Alain Guiraudie.
CAST Damien Bonnard, India Hair, Christian Bouillette, Basile Meilleurat.
SCENEGGIATURA Alain Guiraudie. FOTOGRAFIA Claire Mathon.
Drammatico, durata 98 minuti.