Giochi di gabbie
Kevin è un corpo, un involucro che contiene ventitre diverse personalità. Due di loro prendono il sopravvento, rapiscono tre ragazzine e le portano nel loro rifugio. Che cosa vogliono veramente da quelle povere giovani? Forse è questa la domanda specifica che Shyamalan pone a noi umili spettatori. Una domanda che in qualche modo riecheggia anche dopo la fine del film e rispondervi non è per niente facile.
Dunque, accantoniamola (e attenzione, non perché sia effettivamente impossibile dare una risposta, ma perché potrebbero essercene infinite, o per la precisione ventiquattro). Concentriamoci invece su ciò che possiamo recepire con facilità: siamo, al solito, di fronte alla sfavillante forma ludica del cinema di Shyamalan, un cinema che appunto gioca ogni volta con grande consapevolezza con l’argomento trattato, rendendolo una clava da giocoliere, si diverte a starci sopra in equilibrio precario, lo trasforma strada facendo in qualcosa che all’inizio era tutt’altro. Sì, perché anche Split, come i suoi precedenti film, è un gioco di specchi a incastro, in cui le pedine come sempre sono i personaggi, che si raccontano e ci raccontano storie alle quali abbiamo sempre la sensazione di non voler (o poter) credere fino in fondo. Per tutto il film quello che sembra messo di fronte ai nostri occhi con gran violenza è il tema della dissociazione, dell’essere cioè sempre e ripetutamente altro-da-sé. Ma poi ecco che il meccanismo, repentinamente, cambia: è quella serie ripetuta di gabbie che (senza svelarvi troppo) ci viene mostrata con insistenza nel finale a dare il senso definitivo a tutti gli indizi che sono stati con somma attenzione sparpagliati precedentemente; ognuno è costretto in una cella (che sia reale o metaforica, che si chiami inconscio o società) per tutta la vita, e deve lottare per conquistare ogni volta la sua ora d’aria. Tre ragazze rinchiuse in una stanza devono capire che sono in trappola per provare a tentare di uscirne. Un uomo che soffre di disturbi dissociativi deve poter comprendere che le sue differenti personalità sono la risultante di un trauma per provare a rimuoverle definitivamente. Insomma, Shyamalan gioca e si diverte come sempre ha fatto, focalizzando anche stavolta l’attenzione sui grandi problemi legati all’interiorità: il mondo è una grande gabbia, i nostri corpi, alle volte, lo sono e i rapporti interpersonali, spesso e volentieri, anche. C’è una morale? Sì, la sofferenza è il propulsore per poter combattere e non arrendersi mai.
P.s. – Il finale riserba una piccolissima chicca, che sarebbe in grado di dimostrare come alcuni (o tutti?) film dell’indo-americano appartengano a uno stesso universo. E la cosa potrebbe incominciare a farsi più interessante del previsto…
Split [id., USA 2016] REGIA M. Night Shyamalan.
CAST James McAvoy, Anya Taylor-Joy, Betty Buckley, Haley Lu Richardson.
SCENEGGIATURA M. Night Shyamalan. FOTOGRAFIA Mike Gioulakis. MUSICHE West Dylan Thordson.
Thriller/Horror, durata 116 minuti.