“Ricordo, per esempio, di un mio amico che non voleva andare a capinere”
Due aspetti si manifestano come strettamente intrecciati nel cinema denso di Asghar Farhadi. Da un lato, un’attenzione ai problemi sociali dell’Iran contemporaneo, raccontati attraverso storie familiari e di coppia. Dall’altro, una costruzione minuziosa della sceneggiatura, che spesso mescola il melodramma a un tono distaccato da cinema d’autore claustrofilo, dove il fuori campo è determinante.
Film molto scritti quelli di Farhadi, a volte cerebrali nell’impostazione, salvo impennate emotive di forte intensità. Congegni ossessivi di parole, sentimenti urgenti, intenzioni nascoste, dove la forma ricercata della drammaturgia è così evidente che, in alcuni casi, prende decisamente il sopravvento, allontanandosi dal realismo semidocumentaristico. Con quest’ultimo Il cliente, ambientato in una Teheran in trasformazione, con seri problemi urbanistici, dove nessuno trova casa, Farhadi torna a una storia “in minore”, come quelle dei suoi primi film, dopo l’universalità dei bellissimi Una separazione e Il passato. Aggiunge, però, una novità a livello narrativo. Tutta la seconda parte de Il cliente, infatti, quella che pone i dilemmi morali più preoccupanti, flirta parecchio con certi revenge movie settanteschi. Ha a che fare con la difesa dell’onore perduto del maschio, il desiderio di riscatto e vendetta del colto protagonista, guidatore incosciente come il personaggio che interpreta a teatro, gradualmente ma inesorabilmente fuori di senno, come succede alle figure maschili animalesche de La vergogna di Bergman e di Gaav di Dariush Mehrju, omaggiati ne Il cliente. Questa contaminazione con il cinema basso e “di genere” non funziona sempre, ma incuriosisce e fa aumentare la tensione, in questo complicato giallo dell’anima. E come nei film trucidi di qualche decennio fa, neanche qui si evitano certe ambiguità ideologiche. Pensiamo ai connotati patetici del personaggio dell’aggressore, per esempio, rappresentato sostanzialmente da un poveraccio impaurito. Nello scontro finale, Farhadi sembra interessato più a confrontare due classi sociali diverse che a mettere in discussione il maschilismo dominante. La coppia di teatranti costituita dal moralista incazzato Emad e dall’irrazionale Rana, con la donna (come al solito nei film di Farhadi) un po’ più matura dell’uomo, non ne esce nel migliore dei modi. La scena che precede i titoli di coda li vede entrambi al trucco, invecchiati artificialmente e pensierosi, prima di andare in scena per recitare nei ruoli dei coniugi Willy e Linda di Morte di un commesso viaggiatore. Nei titoli di testa, invece, c’è un letto disfatto vuoto, sul palcoscenico. Dall’America di Miller all’Iran di oggi, il sogno borghese di una famiglia unita, immacolata e realizzata pare proprio destinato al fallimento.