La paranoia è negli occhi degli altri
Non ne esistono molti di film raffinati come Berberian Sound Studio. Più che altro non ne esistono molti che sappiano utilizzare il genere per sguazzarci dentro senza magicamente farsene bagnare troppo.
Perché a vivere la sonorizzazione e il doppiaggio della pellicola Vortice equestre di Giancarlo Santini come un’esperienza che lambisca l’orrorifico è solo lui, Gilderoy, il tecnico del suono più spaesato dell’intera storia del cinema. E con questo vogliamo dire che noi spettatori rimaniamo in qualche modo fuori da questa vicenda, come se il film centrifugasse l’impressione di oggettività e soggettività del protagonista (nel senso che a osservare e a essere osservato è sempre e solo Gilderoy) senza permetterci di rendercene conto. La maestria di Strickland è dunque tutta focalizzata nel gestire uno strano organismo visivo/sonoro che mette le mani nella pasta del thriller all’italiana dei Settanta (Suspiria incluso) da una parte e in quella di Blow Out dall’altra. Ma la raffinatezza, come anticipavamo in apertura, sta soprattutto nel riuscire a creare un amalgama nel quale la paranoia sia l’elemento preponderante, ma paradossalmente non appariscente. In tutti i più grandi horror “trasversali” del cinema anglofono (e vengono specificamente in mente capolavori come Last Wave di Weir o The Shout di Skolimowski) l’evolversi della presunta allucinazione ci interroga sempre sulla natura psicologica e relazionale dell’individuo. In questo modo l’orrore è avvertibile ma mai facilmente riconoscibile. Non è un concetto facile da spiegare, perché è un gioco che ha a che fare con la natura ingannevole delle immagini, con la prospettiva secondo la quale le si osserva e con i vuoti semiotici che spesso (se trattate con quel procedimento) esse riescono a creare tra loro e noi. Non funziona dunque tanto diversamente Berberian Sound Studio che allo stesso modo ci dà continuamente indizi senza la pretesa però di volerci far risolvere il caso. Il metafilmico allora si configura come uno spazio all’interno del quale creare un flusso continuo a cui è impossibile resistere: le voci e gli effetti sonori diventano qualcosa di perturbante, creano un film immaginario che ognuno può sognare e desiderare diversamente a seconda della propria predisposizione, e quando Gilderoy si trova egli stesso a essere doppiato da una voce che a quel punto non sappiamo più da dove provenga, il cortocircuito è avvenuto e il sogno oramai infranto. Il Berberian è uno studio di registrazione all’interno del quale le cose accadono, la realtà non è quella che pensiamo sia e le paure emergono all’improvviso come deformate. È un gioco a incastri con gli interstizi delle ansie di chi si scontra con una verità che sta negli occhi degli altri. È − come quasi sempre in questi casi − il cinema? La risposta forse è scontata, ma la lasciamo comunque dare a voi.
Berberian Sound Studio [id., Gran Bretagna 2012] REGIA Peter Strickland.
CAST Toby Jones, Cosimo Fusco, Fatma Mohamed, Antonio Mancino, Tonia Sotiropoulou.
SCENEGGIATURA Peter Strickland. FOTOGRAFIA Nic Knowland. MUSICHE Broadcast.
Horror/Thriller, durata 92 minuti.