SPECIALE FAMIGLIE DISFUNZIONALI
(Dis)servire la rabbia libidica
Nel cinema di Luis Buñuel, ogni microcosmo rimanda sempre a un macrocosmo. E non fa eccezione la famiglia disfunzionale di Il diario di una cameriera.
Una delle più grandi qualità dello spagnolo è sempre stata infatti quella di mostrarci come ogni specifico nucleo sociale fosse la ripetizione – con seppur qualche distorta differenza – del suo contenitore più grande: la società civile. Nella vita della famiglia Monteil, le interazioni fra coloro che partecipano al suo mantenimento diventano lo specchio deformato del mondo che sta fuori, semplicemente perché vige sempre sottilmente l’assunto del “sono a casa mia e faccio quello che voglio”. Stiamo però attenti a non cadere nel tranello, perché l’estetica delle relazioni e l’ecologia della comunicazione buñueliane sono molto più raffinate di quanto si pensi: sono infatti sempre le nevrosi, le perversioni e le fantasie nascoste a contrastare e a interagire allo stesso tempo con la volontà di fare ciò che si desidera a tutti i costi fare. Nel cinema di Buñuel, che lo si accetti o meno, esiste solo il piacere. Un piacere che non verrà (quasi mai) soddisfatto. Nello specifico, nel panorama baracconesco della tenuta Le Prieuré, ogni personaggio diviene uno spazio fisico sul quale concentrare l’attenzione della macchina da presa a seconda delle esigenze; la cameriera Céléstine in questo senso si pone come il fulcro e l’osservatrice privilegiata delle vicende narrate. In particolar modo la sua figura diventa interessante in quanto giudica in silenzio, non ci mostra prese di posizione intransigenti, mette in gioco un’emotività e una sensibilità che vanno a farsi benedire sempre qualche istante dopo l’atto eseguito. Ciò accade perché Céléstine si dimostra essere una persona che premedita ininterrottamente: la sua moralità però sembra essere messa in discussione ogni volta, ma ogni volta ci accorgiamo che non è così. Quello che alla fine notiamo è che ciò che preme di più al regista spagnolo è voler puntare il dito – come al solito – contro le apparenze, i fascismi di qualsiasi tipo (non è un caso che, a differenza del romanzo da cui è tratto il soggetto, egli ambienti la vicenda alla fine degli anni Venti) e a quelle che potremmo definire ipocrisie corticali (e cioè gli inganni di tutto ciò che ha a che fare con la coscienza). Qui, come altrove nel suo cinema, non è in definitiva la famiglia più o meno squinternata, o la piccola comunità che esprime la sua follia sempre e comunque nel rispetto dell’altro, a essere combattute e criticate, ma bensì quella natura razionale che reprime ogni desiderio, che costruisce un sistema (dis)funzionale per poi demolirlo con una rabbia libidica che finisce ogni volta per mettere in croce sempre il più debole e il più indifeso.
Il diario di una cameriera [Le journal d’une femme de chambre, Italia/Francia 1964] REGIA Luis Buñuel.
CAST Jeanne Moreau, Georges Géret, Michel Piccoli, Françoise Lugagne, Jean Ozenne. SCENEGGIATURA Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière. FOTOGRAFIA Roger Fellous. MONTAGGIO Louisette Hautecoeur, Luis Buñuel.
Drammatico, durata 97 minuti.