SPECIALE KEN LOACH
… E sono un alcolista
Si dice che una delle più grandi difficoltà per chi fa ingresso in una comunità di recupero – realtà oggi forse poco raccontate al cinema ma ugualmente attive e necessarie – sia la cosiddetta frase di presentazione, in cui accanto al proprio nome è affiancata l’ammissione immediata del proprio problema. Qualunque sia la dipendenza per cui ci si affida allo sguardo e all’ascolto dell’altro, riconoscerla significa inquadrare la propria vita entro una cornice di verità, primo vero passo, sempre se sincero, per sottrarsi al dolore e forse cominciare a riscattarsi.
Per Joe, che è un (ex) alcolista e vive di sussidi, cui affianca piccoli lavori occasionali, il dramma è tutto qui: tra una partita di calcio di quartiere e l’altra, in compagnia dei ragazzi che allena nel tempo libero o degli amici più o meno stabili con cui girovaga nelle periferie di Glasgow, Joe è capace di una generosità senza pari verso chi, come Liam, sembra destinato a incagliarsi nei suoi stessi problemi, e non esita a fare di tutto per offrire il proprio aiuto, perfino sfidando il pericolo e mettendo a rischio la propria vita. Il problema è che questa generosità è più veloce della capacità di conoscere se stesso, e il desiderio di proteggere l’altro si mescola rapidamente con la menzogna, gli alibi, la tragedia, e l’inevitabile ritorno alla bottiglia: per questo My Name is Joe di Ken Loach, seconda sceneggiatura di Paul Laverty da lui portata sul grande schermo, ha il pregio di incrociare l’ombra della dipendenza al profilarsi di una storia d’amore, quella con l’assistente sociale Sara che di Joe amerebbe tutto, e più di ogni altra cosa l’altruismo, ma non perdona la minima bugia da parte dell’uomo, perché a lui chiede un amore fondato sulla verità. Lineare, vicino alla realtà anche grazie ad ambienti e personaggi secondari trovati sul campo, senza ulteriori elementi di manipolazione scenica, My Name is Joe è probabilmente il primo film di Loach che, alla fine degli anni Novanta, avrebbe lasciato intendere tanti lavori, più o meno riusciti, realizzati al giro del secolo. In questo ventaglio d’opere – cui certamente appartiene anche l’ultimo Io, Daniel Blake – My Name is Joe resterà forse soprattutto grazie alla performance del suo protagonista Peter Mullan, premiato a Cannes dove il film passò in concorso, che declina con viscerale sincerità un personaggio difficile e in partenza, è il caso di dirlo, quasi disperso nell’anonimato di tante piccole storie, tutte uguali, tutte passeggere, del proletariato contemporaneo. Mullan è a servizio del personaggio, e attraverso il personaggio lascia brillare quella delicatezza, quella dolcezza nascosta tra la rabbia e la disperazione, che il cinema di Ken Loach più di chiunque altro ancora sa restituire. Nel campo e controcampo di un amore faccia a faccia, in cui ciascuno chiede all’altro il proprio nome e la verità, nient’altro che la verità.
My Name is Joe [Id., Gran Bretagna/Francia/Spagna/Italia/Germania 1998] REGIA Ken Loach.
CAST Peter Mullan, Louise Goodall, Gary Lewis, David McKay, Anne-Marie Kennedy.
SCENEGGIATURA Paul Laverty. FOTOGRAFIA Barry Ackroyd. MUSICHE George Fenton.
Drammatico, durata 105 minuti.