Con i suoi 69 ritratti in bianco e nero di dive del cinema, Untitled Film Stills è probabilmente la serie fotografica più famosa di Cindy Sherman. Peccato che nessuna immagine si riferisca ad un’attrice reale. Con tutta la familiarità che questi volti possono suscitare, il déjà vu è solo un prodotto del nostro immaginario cinematografico anni ’60, un miscuglio di lunghi silenzi, spalle scoperte, mascara pesante e cipria traslucida.
A Cindy Sherman basta indossare una parrucca bionda e un paio di ciglia finte per riportare in vita nel suo appartamento un’intera fetta di storia del cinema, con tutti i suoi stereotipi femminili. Dentro ci sono le solitudini sospese di Antonioni, le inquadrature drammatiche di Hitchcock, le lenzuola stropicciate della Nouvelle Vague, con al centro bellezze distratte, ornamentali, splendide al di là del tempo: Brigitte Bardot, Jayne Mansfield, Monica Vitti, Sophia Loren, Jeanne Moreau, sono tutte qui, in ognuna di queste donne e in nessuna in particolare. Nessuna è una citazione letterale, ma solo una messinscena ben studiata che ci lascia liberi di fantasticare. Ogni scatto è come il frammento di un film che non è mai stato girato, un pastiche ben confezionato di suggestioni neorealiste: il gioco non è ritrovare la pellicola a cui appartiene, ma costruirne una a partire dalla scena data. Per farlo basta fantasticare, farsi guidare dalla grammatica degli sguardi, completare il percorso di un gesto e seguirlo fuori campo. Prendendo alla lettera l’assunto di Barthes che fa del fotogramma un secondo testo, Sherman (ispirata dal racconto spezzato de La Jetèe di Chris Marker) isola un frame dal contesto e ne fa un film in sé compiuto, completamente autosufficiente. Rovesciando la teoria fondante del cinema strutturale, che vuole lo spettatore sempre cosciente della finzione filmica e trova nell’isolamento del fotogramma un modo per spezzare il fluire della messinscena, Untitled Film Stills rivendica l’autonomia espressiva della singola parte, dell’immagine, contro la prolissità ridondante dell’intero. Cindy Sherman utilizza il mezzo artistico che le è proprio per sezionare i meccanismi narrativi del cinema, senza cercare di stabilire primati, ma ponendo i due medium a contatto nel tentativo di portare a galla significative intersezioni. Il risultato è un esperimento riuscito: l’artista rintraccia nella fotografia una qualità cinematica e conferisce al fermo immagine la dignità di un’opera d’arte conclusa. La serie non può essere considerata semplicemente come un’operazione di Appropriation Art, non si risolve in una critica al vouyerismo maschile o in un’indagine sul tema dell’identità femminile, ma è soprattutto una sottile riflessione sul funzionamento dell’audiovisivo e sul ruolo cruciale che il cinema riveste nel processo di costruzione della cultura e della memoria collettiva.