Una vita pericolosa
La “Dichiarazione del Minnesota” è un manifesto di poetica che Werner Herzog ha presentato in occasione di una conferenza al Walker Arts Center di Minneapolis, nell’aprile del 1999. Essa consta di dodici punti, ognuno dei quali va a toccare un tema caro al regista bavarese, senza l’intenzione di esaurirlo. Lo stile di scrittura mima i dieci comandamenti ed è coerente con la poetica del regista, caustico e disilluso, eppure sempre pronto all’avventura.
Tra i vari precetti – alcuni pungenti e altri deliranti – possiamo ad esempio trovare “Il turismo è peccato, viaggiare a piedi una virtù” oppure “La luna è noiosa, Madre Natura non parla, anche se un ghiacciaio può scoreggiare occasionalmente”. Insomma, Herzog si dà da fare per pubblicizzare la sua visione avventurosa della vita ma anche – soprattutto – per combattere un pregiudizio diffuso nei suoi confronti, quello che lo vorrebbe un neo-romantico. È vero che è un avventuriero che odia i teatri di posa, che i racconti delle sue produzioni sono interessanti almeno quanto le storie dei suoi film, che ama i protagonisti con manie di grandezza e che predilige luoghi incontaminati e aborigeni, ma è altrettanto vero che Werner Herzog non è Chris McCandless. Egli non è un ragazzo in rivolta contro la società ma un viaggiatore consumato che tiene sempre a bada le fantasie romantiche dei suoi collaboratori. “Kinski dice sempre che è piena di elementi erotici (la natura). Io la vedo piena di oscenità più che di erotismo”, recita Herzog sul set di Fitzcarraldo, in uno dei momenti più pregni del suo documentario Kinski, il mio nemico più caro. Coll’attore firmerà i suoi prodotti di fiction più importanti: Aguirre, furore di Dio – che gli conferisce fama internazionale nel ’72 – e Fitzcarraldo, due produzioni difficoltose dove il pericolo è palpabile. A questi vanno aggiunti, per avere una filmografia di minimo, i due film con Bruno S., L’enigma di Kaspar Hauser e La ballata di Stroszek e, naturalmente, i suoi documentari, presenti fin dall’inizio della sua carriera e ben più numerosi rispetto ai prodotti di finzione. Dall’impressionismo di Fata Morgana all’avventura di La Soufrière (dove Herzog s’inerpica con la sua troupe sulle pendici di un vulcano in eruzione), fino al found footage di Grizzly Man, che segna l’inizio di un nuovo periodo per il documentario del regista, che diventa un narratore invasivo e familiare (nonostante il forte accento bavarese, il regista ha sempre curato personalmente la voce narrante inglese dei suoi documentari). Tutti i particolari più gustosi sulle vicende dei suoi set cinematografici sono raccontati nel bel libro intervista Incontri alla fine del mondo, curato da Paul Cronin. Oggi l’Herzog documentarista è in stato di grazia; a settantaquattro anni non rischia più la vita per filmare qualche cannibale dell’Amazzonia ma i suoi documentari sono molto apprezzati per la libertà narrativa e lo sviluppato senso del grottesco. Altrettanto apprezzate sono le sue lezioni di cinema la cui filosofia potrebbe essere così riassunta: per fare un film è più importante sapere come spostare un camioncino che ti rovina l’inquadratura che essere in grado di usare After Effects.