VENEZIA CLASSICI
“Noi samurai siamo come il vento”
John Woo ha detto che “Akira Kurosawa è un gigante. Ma nonostante sia grande come una montagna, il suo cuore resta umano […]”: lo capiamo, una volta in più se fosse necessario, guardando I sette samurai (Leone d’Argento a Venezia nel 1954). C’è tutto lo “spirito cavalleresco”, la nobiltà e la generosità dell’uomo d’onore, il samurai appunto, ma ci sono anche fragilità, ipocrisie, le paure di un’umanità intera.
Il film è un’opera monumentale, dalla gestazione lunga e difficile (un’edizione di 207 minuti, una di 130, una di 192, quella classica di 160) che inserisce Kurosawa, già regista di fama internazionale (nel ’51 Rashomon gli vale Leone d’Oro a Venezia e Oscar come Miglior Film Straniero), nell’Olimpo. Giappone del XVI secolo, l’Era Sengoku. Un villaggio da salvare. Samurai, contadini e briganti. Calma e frenesia. Battaglia e quotidianità. I sette samurai alterna e incatena tutto questo, restando una lezione di cinema viva, vivace e commovente. Kurosawa è in grado di accarezzare i suoi personaggi con la delicatezza di chi non fa passi indietro ma vuole scorgere le sfumature impercettibili dell’universo contadino come di quello guerriero e stringere in un caldo abbraccio ogni essere vivente, anche il più umile e dimenticato. Il quotidiano acquista significato tanto quanto l’epica dei gesti e delle situazioni; l’intero film ha ritmo lento ma inesorabile come l’acqua che leviga il letto del fiume, ha una vitalità narrativa senza eguali che lo rende simile ai romanzi ottocenteschi. Il regista verga il suo lavoro sulla scia delle opere di Ford, come anche sulla lezione di Ejzenštejn, diventando archetipo per il cinema dopo di lui (I magnifici sette di Sturges, l’omaggio di Quella sporca dozzina), soprattutto per il western. A essere simbolo di modus narrandi sono le battaglie; si pensi ad esempio allo scontro sotto la pioggia che diventa espressione di una guerra senza esclusione di colpi in cui ci si dà totalmente, anche a rischio della vita. I sette samurai del cineasta, tra cui giganteggia quello interpretato da Toshirō Mifune, sono diversi gli uni dagli altri e rappresentazione di varietà umane che declinano il senso dell’onore. In un’opera di costruzione e di decostruzione Kurosawa toglie l’aura di perfezione quasi mitica del samurai per renderlo molto più umano: i combattimenti non sono passi di danza delicati, neppure coreografie in musica, ma disarmonie tanto quanto i suoi guerrieri, spesso goffi e poco spettacolari. La stessa cosa tocca ai contadini che non sono solo o solamente poveri cristi, schiacciati da tutto, ma anche cinici, cattivi, impensieriti da cose che non dovrebbero impensierire. Ancora oggi I sette samurai resta un film patrimonio a cui guardare non solo come saggio di cinema ma anche come disamina del sentimento che scuote e commuove.
I sette samurai [Shichinin no Samurai, Giappone 1954] REGIA Akira Kurosawa.
CAST Takashi Shimura, Toshirō Mifune, Yoshio Inaba, Seiji Miyaguchi, Isao Kimura.
SCENEGGIATURA Akira Kurosawa, Shinobu Hashimoto, Hideo Oguni. FOTOGRAFIA Asakazu Nakai. MUSICHE Fumio Hayasaka.
Drammatico, durata 207 minuti.